Si può essere femministe oggi e amare al contempo la moda? E la moda può essere femminista? Cosa è cambiato nel femminismo odierno? Chi sono le nuove femministe? Sarà lecito usare certe mise delle donne in corteo negli anni ’70 come spunti creativi per prodotti iperlussuosi? Dubbi e polemiche sono nati dopo le maggiori sfilate P/E 2015, in particolar modo dopo la sfilata di Chanel, quando un gruppo di modelle arrabbiate ha inscenato una manifestazione lungo un fantomatico Boulevard Chanel, perfettamente ricostruito al Grand Palais di Parigi, con Cara Delevingne a urlare slogan in un megafono griffato con la doppia C, Gisele Bündchen e colleghe a inalberare cartelloni al grido di «Be Your Own Stylist», «Make Fashion Not War», «Feminist But Feminine»; «Mia madre era una femminista e la mia sfilata è un omaggio alla sua storia», chiosa Karl Lagerfeld sugli interrogativi nati dopo la sua sfilata.
Sappiamo bene che “le rivoluzioni non si fanno con i guanti di seta” ; niente di più vero, se lo intendiamo in senso metaforico, ma ripercorriamo, invece, i tempi in cui un semplice guanto sfilato in un determinato contesto poteva suscitare scalpore e pensiamo a quando le donne l’hanno capito e non hanno esitato ad usare la moda come strumento di provocazione. Il tortuoso percorso dell’emancipazione femminile ha avuto quindi come “compagna di viaggio” la moda. Si pensi alle suffragette, donne che non volevano più essere considerate solo come mogli/madri e chiedevano di avere gli stessi diritti che la società riservava agli uomini; il loro unico mezzo per farsi notare era quello di organizzare azioni che per l’epoca erano estremamente provocatorie: per esempio, andare in bicicletta, indossare pantaloni, scendere in piazza a manifestare. Un altro segno di riscatto fu l’abbandono del corsetto, strumento di “tortura” che provocava danni fisici anche gravi a chi lo portava; la moda di allora era quella dei vitini da vespa.
E anche nel 2015, la moda sembra essere il veicolo prediletto per diffondere messaggi che sono sì, puntualmente politici, ma non riguardano solamente la condizione femminile in senso stretto. Come dire: tocca alle donne difendere i diritti di tutti, ma proprio tutti. Dunque, riproporre alcuni simboli delle lotte di quarant’anni fa contro il patriarcato fungee da reminder per la guerra di oggi contro le ingiustizie.
Una nuova ondata di femminismo glam è imperversata a partire già dall’anno scorso: pullulano i blog femministi e nel gennaio 2014 il Financial Times pubblica un articolo dal titolo Feminism is Back in Fashion, corredato da dichiarazioni di imprenditrici chic, celebri e iperfemminili come Tamara Mellon e Tory Burch: «L’empowerment femminile sarà dell’economia, visto che le imprese dirette da donne stanno andando meglio delle altre». E, come ha sottolineato l’attrice Emma Watson nel discorso all’ONU per promuovere la campagna He For She, rivolta agli uomini, per eliminare ogni differenza tra maschi e femmine, quello del nuovo millennio è «un femminismo che accoglie e non respinge, che protesta e non detesta». Significativi a tal proposito sono i lavori di Lena Dunham e Caitlin Moran che con i loro libri e le loro sceneggiature stanno facendo per la generazione delle moderne twe-femministe quello che il Partito Femminista ha fatto per la Svezia (conquistando un posto in Parlamento) e, prima ancora, le loro mamme. Femminismo oggi è il diritto di fare le scelte che vogliamo, il dovere di pretendere uguaglianza e parità. Una meta da conquistare insieme agli uomini e, perché no, anche in tacchi a spillo.
Chiara Grasso
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