Negli ultimi giorni si sta diffondendo l’ennesima polemica che vede come protagonista l’azienda di fastfashion cinese (moda veloce) Shein.
Brand che ha come potenzialità quattro cose fondamentali in un’epoca come la nostra: prezzo, assortimento, trend, taglie per tutti i tipi e generi di acquirenti. Nel 2020 è stata l’azienda più discussa su social quali Tik Tok, Youtube e Instagram; facendo così parlare di sé in tutto il mondo e diventando una potenza mondiale. A ottobre 2020, Shein era la più grande azienda di moda esclusivamente online del mondo.
Esattamente qualche giorno prima del cosiddetto “Black Friday”, evento che si tiene a fine novembre e grazie a cui si ha la possibilità di acquistare a minor prezzo qualunque cosa, servendosi di promozioni da parte delle aziende interessate, la cooperatrice Greenpeace Germania ha volutamente preso dei capi dal sito Shein per poterli successivamente analizzare in laboratorio. I dati ricavati dalle analisi eseguite mostrano che ben il quindici per cento dei quarantasette prodotti acquistati in Italia, Austria, Germania, Spagna e Svizzera contiene quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee. In parole povere, capi illegali a tutti gli effetti.
In merito Greenpeace denuncia: “Il marketing astuto di Shein bombarda i giovani, attraverso nuove piattaforme di social come TikTok, con prodotti venduti a prezzi stracciati, promossi da influencer che ottengono in cambio prodotti gratuiti e altri vantaggi per fare pubblicità”, sottolineando che “poco si sa dei fornitori che realizzano questi prodotti per il marchio cinese, delle migliaia di lavoratori delle sartorie nel Guangdong, in Cina, che trasformano ordini in prodotti 7 giorni su 7 e ancor meno delle fabbriche che tingono i loro tessuti durante le fasi produttive che producono il maggior inquinamento delle acque”.
Dai risultati delle analisi di questi quarantasette prodotti acquistati dai principali Paesi europei e portati in laboratorio è emerso che almeno una sostanza chimica è pericolosa. In effetti, è stata trovata nel novantasei percento dei prodotti, che comprendevano abiti e calzature per uomo, donna, bambino e neonato. Le sostanze chimiche contenute nei prodotti sono formaldeide, ftalati, Pfas e metalli pesanti. Suddette sostanze non solo sono nocive, ma la loro quantità in eccesso viola il regolamento REACH (Registration, Evaluation, Authorisation of Chemicals) che identifica i valori limite relativi alla presenza di una serie di sostanze chimiche pericolose nei capi di abbigliamento, negli accessori e nelle scarpe. Si parla di concentrazioni superiori a 100mila mg/kg, mentre il limite fissato dal regolamento europeo è di mille mg/kg.
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Chi paga il prezzo di tutto ciò?
L’ambiente
È ormai quasi certo sapere quali potrebbero essere, in un futuro non molto lontano, le conseguenze per il Pianeta. Sono anni che esistono associazioni e addirittura aziende a favore dell’ecosostenibilità, per permettere al Mondo, ma anche a chi lo abita, di vivere più a lungo e nel modo più sano possibile.
Migliaia le polemiche, campagne di sensibilizzazione, scioperi, performance messe in atto da attivisti, in modo che “chi sta più in alto di noi” si renda conto che è necessario cambiare o per lo meno rallentare il modo di agire nei confronti del Pianeta e che il business potrebbe e dovrebbe essere una scelta secondaria rispetto alla vita.
L’industria del fashion è responsabile di circa il dieci per cento delle emissioni globali di gas serra e rappresenta una delle principali cause di inquinamento delle acque in tutto il mondo. Oltre l’ottanta per cento degli impatti ambientali si verificano nei Paesi del Sud del mondo, dove viene prodotta la stragrande maggioranza dei vestiti che finiscono sul mercato globale. E dove, come in un circolo vizioso, vengono spedite grandi quantità di rifiuti tessili, come ha recentemente rivelato un’inchiesta di Greenpeace Germania. Le sostanze chimiche usate non sono riciclabili, non si decompongono una volta immesse in natura o nei corsi d’acqua, ma, anzi, si accumulano e vengono ingerite da organismi, quali i pesci, che la popolazione consuma e che in un futuro non tanto prossimo, potrebbe avere serie ripercussioni dal punto di vista sanitario.
La soluzione di Shein
Colossi della moda come Zara e H&M, in precedenza anch’essi presi in causa per violazione di leggi ambientali e diritti umani, stanno ripulendo le loro filiere, adattandosi e venendo incontro alla campagna Detox di Greenpeace Germania. Tali aziende non saranno mai non inquinanti, ma per lo meno la produzione della loro collezione è inferiore rispetto a quella prodotta da Shein, che propone novità di qualsiasi tipo ogni settimana.
Non risulta che il brand si sia mai espresso esaustivamente al riguardo, né che abbia concretamente adottato delle soluzioni o dei cambiamenti nelle proprie filiere. L’unica “soluzione” a oggi messa in atto sono degli avvisi di richiamo mostrati nella loro stessa app non appena il brand si accorga di aver venduto capi o prodotti particolarmente nocivi per l’uomo. Dopodiché l’azienda invita a distruggerli e smaltirli autonomamente, regalando per questa buona azione e per il “disagio” causato, un buono da dieci euro spendibile sul sito.
Chiara Rizzo