Dopo la grande parentesi meme di Barbenheimer, le pellicole uscite in contemporanea negli USA, il 23 agosto è uscito in Italia Oppenheimer di Christopher Nolan. Un film attesissimo, il racconto di un punto focale del secolo scorso ma in parte misconosciuto dalla maggior parte del pubblico. Un cast imponente, dal protagonista Cillian Murphy agli altri volti principali come Robert Downey Jr. e Matt Damon (senza citare Emily Blunt, Kenneth Branagh o Gary Oldman).
La pellicola racconta in parziale forma biografica, in cui il punto di vista è quella dello scienziato americano, la vita del fisico Robert Oppenheimer. Nello specifico vengono affrontate due fasi essenziali, ovvero la creazione e conclusione del progetto Manhattan (la progettazione delle prime testate nucleari americane, quelle poi sganciate a Hiroshima e Nagasaki) e il processo mascherato che poi venne mosso contro lo stesso scienziato per le sue passate idee politiche, in un clima prossimo alla Guerra Fredda e all’antagonismo con l’Unione Sovietica. Quindi ascesa e caduta di un semidio, di un titano, un Prometeo moderno come suggerisce la scritta all’inizio del film (e il libro da cui è tratto). Quindi, ciò che accade quando l’uomo accede alla conoscenza suprema: finisce per autodistruggersi.
Come era prevedibile, dal punto di vista tecnico, il film non sbaglia una virgola. Partendo da scelte estetiche come l’alternarsi di una fotografia a colori e di una in bianco e nero (a cui corrispondono due linee narrative differenti, oltre che una visione rispettivamente soggettiva e oggettiva della vicenda, come suggerito dallo stesso regista), fino ad arrivare alla grande impresa di riportare in scena il test atomico del Progetto Manhattan.
La missione che si era dato Nolan era quella di limitare il più possibile l’utilizzo di CGI, così da restituire una maggiore concrettezza a ciò che avveniva in scena. Ecco che, come suggeriscono vari estratti di backstage, il regista ha deciso di detonare verie proprio testate – chiaramente non nucleari – così da ottenere un finto fungo atomico da riprendere (oltre che l’uso di particolari tipi di ripresa e angolazione, così da aumentare la spettacolarità delle scene).
Vi è però un lato negativa, comune alle altre pellicole di Nolan, spesso troppo legate alla struttura narrativa e alla sorpresa visiva, piuttosto che alla scrittura. La sceneggiatura, infatti, a partire dai dialoghi, talvolta sembra vacillare: il regista, purtroppo, fallisce nel dare retorica ai suoi personaggi e finisce per creare situazioni e scambi di battute rarefatti. Se questo accade lievemente per tutta la durata del film, senza rappresentare un difetto troppo grande, è nella seconda parte che il problema si fa più grande. Si vede come la seconda linea narrativa, quella del bianco e nero, sia stata messa troppo da parte nel corso dello svolgimento, causandone così una debolezza di movente e – seppur grazie a un ritmo incalzante, che mai annoia, nonostante le tre ore di durata – portandola a faticare cercando di creare interesse nello spettatore.
Uscire dalla sala dopo un film di Nolan è quasi sempre una soddisfazione: sa mettere tensione, sa confondere e creare interesse, e, come detto prima, ha un comporto tecnico non indifferente. Tuttavia, non rimane mai niente dei suoi film, nulla che continui a lavorare dentro di noi. Se per esempio nel caso di Interstellar, per la trama alla base, il pubblico seppe emozionarsi. In altri casi, vedete Inception o Tenet, oltre allo stupore immediato per il “rompicapo” che fa da fulcro, non rimane niente. Sono film ad altissimo budget, che portano tanto hype prima dell’uscita e che dopo la visione la gente tende a dimenticare con facilità. È questo il caso di Oppenheimer? Sì e no. Sì perché la pellicola si impegna in un messaggio ma fallisce, l’aspetto visivo sovrasta il resto. No perché c’è voglia di cambiare indirizzo, di provare qualcosa di diverso, e lasciare stare i labirinti mentali a cui ci aveva abituato.
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