L’influencer marketing è uno strumento sempre più in uso dalle aziende nell’era digitale, a manovrarlo sono i cosiddetti influencer che collaborano con le aziende al fine di vincere la fiducia dei consumatori e sponsorizzare il prodotto, sorgono però conflitti e dubbi su queste nuove figure professionali
Gli influencer rientrano nei nuovi ruoli nati con l’avvento dei social media, sono, prima di tutto, persone in accordo con le aziende per sponsorizzare i prodotti attraverso attività specifiche sui propri canali social con un numero elevato di follower. Il loro potere persuasivo e la credibilità derivano dal fatto che sanno rappresentare la propria persona. Sono per lo più blogger, autori, speaker ed esperti di canali di comunicazione che attraverso post, tweet, link, immagini e video riescono a suscitare grande interesse e coinvolgimento nelle azioni e nelle strategie che adottano perché hanno la piena attenzione e fiducia dei seguaci. Di recente se ne è parlato in un articolo di Giulio Pasqui su TvBlog che ha portato alla luce il fenomeno del pagamento degli influencer; a farne uso sono soprattutto le reti televisive con l’obiettivo di scatenare il passaparola sui loro programmi, come scrive nel suo articolo «da un po’ di tempo a questa parte è stato creato un vero e proprio “tariffario” per avere gli influencer più importanti dalla propria parte, significa contattare una webstar, pagarla e far twittare il programma di riferimento».
Si cita la testimonianza di una nota star del web che afferma «la tariffa varia al variare della collaborazione, di norma per seguire un programma, vengono offerti 100 € circa a puntata. Se poi parliamo di influencer con numeri notevoli o di personaggi conosciuti, l’offerta è sicuramente maggiore. Esistono casi in cui è il cliente stesso (o chi per lui) a chiedere all’influencer di stabilire un prezzo». La questione è scottante poiché mai affrontata finora, il fenomeno sta crescendo proporzionalmente all’aumento degli influencer che sperano di ricevere richieste per qualche servizio di partnership. Intanto sui social sono nate vere e proprie community per poter essere raggiunti e ingaggiati più facilmente, vediamone alcuni esempi:
3. Finder o Blogdash
Software che rilevano la notorietà e l’influenza della persona nei vari canali e piattaforme social, caratterizzandole in base a una ricerca dettagliata
4. Klout
Giochi di valutazione privata delle persone e della loro capacità di pubblicazione mantenendo sempre alto il livello di interesse dei follower
5. Peerindex
Piattaforma pensata per valutare direttamente le aziende e candidarsi
Il ruolo di queste nuove figure è stato visto come una potenziale risorsa poiché la pubblicità tradizionale sembra non sortire più lo stesso effetto sui consumatori che tentano di raggirarla con ogni mezzo. Gli influencer sono considerati parti integranti nella creazione dei contenuti, nella fase di ideazione del prodotto e agli eventi di lancio; possono essere inseriti nella campagna pubblicitaria per avere maggiore consenso. Vi sono, però, delle scorrettezze da parte di entrambe le posizioni: i numeri dei seguaci vengono aumentati con l’inganno, le aziende pronte a far qualsiasi cosa nella lotta alla visibilità social e i cosiddetti produttori dei contenuti si fanno pagare cari per i loro post e le loro azioni sul web, una dinamica che sta degenerando. Domenico Naso, de Il Fatto Quotidiano, ha definito negativamente gli influencer come dei «cialtroni di dimensioni cosmiche, le giornate dell’influencer tipo vanno avanti tra un post che ringrazia questo o quel marchio per il costoso regalo ricevuto e un video su Snapchat che esalta il pessimo film di turno alla cui prima è stato invitato»; invece Claudia Vago su Che Futuro ne parla a favore dando la colpa alle aziende «prima di prendermela con i ragazzini che sognano di campare di snap su Snapchat e foto su Instagram cercherei di capire qual è la responsabilità, per esempio, delle aziende che li usano, che li illudono che con una snap e una foto si possa campare».
Bisogna operare in tal caso una distinzione fondamentale: ci sono quelli che si definiscono o si percepiscono disposti a tutto pur di guadagnare ed essere contattati, poi ci sono anche coloro che lo fanno aldilà del pagamento perché realmente interessati al prodotto o al programma. Nella zona neutrale si possono collocare tutti quei casi in cui non si capisce se la persona che scatta la foto o pubblica un tweet di un determinato prodotto lo fa perché spinto da interesse reale o per qualche altro motivo. «Al giorno d’oggi chi scrive sui social media e ha un certo seguito in termini di follower, deve preoccuparsi di essere credibile e difendere la propria libertà d’opinione contro le tentazioni dei brand» afferma Giulia Blasi dopo aver rifiutato di coprire con il suo account Twitter un evento di un grande marchio «il mio profilo personale non è in vendita, così facendo c’è il rischio di rinunciare in cambio di denaro alla propria libertà di espressione, è un business che si basa sulla falsa credenza che i blogger e le star dei social credano nei prodotti che stanno segretamente vendendo». Il sunto della questione è di chiara interpretazione, a oggi non si ha la certezza della spontaneità della persona che vende un contenuto sul web, tutto questo rientra in una precisa operazione di influencer marketing.
Elisa Mercanti
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