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“Fury”, il (non)senso della guerra
09 Giugno 2015
EntertainmentSettima arte

“Fury”, il (non)senso della guerra

Home » Entertainment » “Fury”, il (non)senso della guerra

Una scena del film 'Fury'«La guerra crea gli eroi, la storia li trasforma in leggenda». Ultimo lavoro del regista David Ayer, noto ai più per aver diretto il primo film della fortunata saga di Fast and Furious e End of Watch – Tolleranza zero (2012), è Fury, in prima battuta magnifica costruzione della sua identità da regista. La tagline del film è spiazzante, perché dà una prima idea sul fatto che la guerra è il risultato di un groviglio di macerie, dolore e disperazione; il film rappresenta un’assurdità chiamata guerra (nella fattispecie la Seconda guerra mondiale) che travolge e sconvolge i corpi umani. Ma d’altra parte, questi eroi della guerra trasformati in leggende vengono percepiti come lontani e diversi da noi, come entità superiori; dal secondo dopoguerra in poi l’ombra della morte viene scacciata dalla nobilitazione del sacrificio compiuto in guerra sia da coloro che sono caduti, sia da coloro che sono tornati.

Germania, aprile 1945. La guerra sembra non finire mai per il sergente Don Collier (Brad Pitt), sopravvissuto al deserto africano e alle spiagge della Normandia. Leader carismatico di un manipolo di soldati di diversa estrazione e diverso carattere, Don è inviato in missione dietro le linee nemiche e dentro un carroarmato Sherman. Perduto in uno scontro a fuoco il loro tiratore, reclutano Norman Ellison (Logan Lerman), un giovane soldato a disagio con la guerra e la violenza. Ribattezzato dalla sua squadra Wardaddy, Don si prende cura come un padre del ragazzo e lo inizia ai rudimenti della guerra con metodi poco ortodossi. Avanzare contro il nemico, abbatterlo e sopravvivergli favorisce la confidenza e il cameratismo tra gli uomini di Don, che impavidi hanno deciso di seguirlo in un’ultima impresa contro trecento soldati tedeschi. Un’ultima linea armata prima della libertà e della pace.

FuryIl Novecento è un grandissimo laboratorio di innovazioni e sperimentazioni, per fortuna non tutte terribili o luttuose, né tutte riconducibili, almeno in prima battuta a esperienze passate. Nel film c’è una forza espressiva che riguarda il linguaggio cinematografico, solo in parte determinata dal tema sociale della guerra e dei soldati. È un film puro, nel senso che non si preoccupa di “contaminare” i linguaggi del cinema di finzione (a soggetto) e in parte del cinema documentario. Esso si vale di un linguaggio altamente sociale: descrive infatti, con tocchi intelligenti, la dura, faticosa vita dei soldati alleati nelle battaglie all’interno della Germania nazista; ci sono valori reali e come contenuto e come processo stilistico. Ciò che risulta originale agli occhi degli spettatori di Fury è proprio la discontinuità di sintassi con le opere precedenti del regista. C’è questo dato di realtà: la fatica, la mancanza di sicurezza, il progressivo deteriorarsi dello stato di salute di questi soldati. Ma c’è anche la speranza, la costruzione di un futuro migliore.

Vengono fuori due ulteriori elementi essenziali per comprendere il film. Il primo è l’approccio “lirico” anche quando affronta la brutalità della guerra, c’è una gentilezza tanto nella composizione (a livello di grammatica), quanto nella struttura narrativa e nella musica (a livello di sintassi). Fury prosegue l’estetica del film diretto da Steven Spielberg Salvate il soldato Ryan (1998) e si ritaglia un posto nel genere. Non tanto e non solo perché il suo regista, ex marine, ha esperienza diretta della materia, ma per l’impianto drammaturgico singolare, articolato in un interno (il carro) e in una relazione corpo-macchina. Il secondo elemento è quello della continuità produttiva. Fury è sì un film a sé stante, ma fa anche parte di un progetto più complesso che non è solo quello di rappresentare le storie di soldati e la durezza della guerra, ma soprattutto mostrare la via del riscatto che è un’altra e riguarda l’umanità nella sua interezza, non solo i diseredati, i militari.

Per quanto concerne i personaggi, le loro sono tutte storie apparentemente individuali, ma che, nella sostanza, diventano esemplificative di una condizione universale del vivere umano. Ayer non sembra ossessionato dalla materialità del combattimento, a interessarlo è l’unità protagonista. Quella che in apparenza può sembrare solo una ricerca fenomenologica del tutto raccolta in una cifra descrittiva, di fatto diventa una parabola spalancata sul versante etico e metafisico.

 Enrico Riccardo Montone

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