Alcuni scienziati pensano che attraverso lo studio degli uccelli si possa chiarire in che modo si è evoluto il nostro linguaggio. Una ricerca del 2014, infatti, ha evidenziato che una specie particolare di uccelli, il diamante mandarino, è in grado di discriminare i cambi di intonazione della voce umana, rivelando così abilità superiori a molti primati strettamente imparentati con noi. «Per gli uomini, l’intonazione è molto importante e può cambiare il senso di una frase», sottolinea la studiosa Michelle Spierings. «Non ci saremmo mai aspettati che gli uccelli fossero tanto sensibili a dei minuscoli cambiamenti della nostra voce».
Ci sono alcune prove che dimostrerebbero come gli uomini e gli uccelli abbiano in comune geni e strutture cerebrali associabili con l’uso della parola. Per questo motivo, alcuni scienziati ritengono che lo studio dei volatili possa chiarire in che modo si è evoluto il linguaggio umano, come spiega Angela Saini in un documentario su BBC Radio 4. Nell’origine della specie, pietra miliare della biologia moderna, il naturalista Charles Darwin ha scritto: «I suoni emessi dagli uccelli offrono, per parecchi aspetti, l’analogia più vicina al linguaggio, perché tutti gli individui della stessa specie emettono grida istintive che esprimono le loro emozioni; e tutte le specie che cantano esercitano la loro facoltà istintivamente». Il pensiero di un altro naturalista, Daines Barrington, ha detto che i primi tentativi di cantare «si possono paragonare all’imperfetto sforzo di balbettare di un bambino». Nel 2013, il linguista Shigeru Miyagawa del MIT (Massachusetts Institute of Technology) ha rafforzato un concetto espresso da Darwin quasi 155 anni prima, formulando una teoria secondo la quale il linguaggio umano si sarebbe sviluppato dal canto degli uccelli. Insieme ad alcuni colleghi, Miyagawa ha suggerito che il nostro linguaggio si fonda su due componenti distinte, entrambe presenti in forma semplice in animali meno evoluti.
L’ipotesi integrativa di Miyagawa prospetta che l’uomo rappresenti l’unico caso in natura in cui il sistema lessicale e quello espressivo lavorino a braccetto: il primo si destreggia tra circa 60 mila vocaboli, il secondo permette di assemblarli in schemi funzionali. Il linguista del MIT teorizza che i nostri antenati abbiano prima sviluppato la capacità di “cantare” in modo simile agli uccelli, e poi abbiano imparato a inserire le parole nei loro vocalizzi. Questa teoria prospetta l’ipotesi che in un periodo compreso tra 50mila e 100mila anni fa gli umani avrebbero iniziato a parlare direttamente in una forma complessa, ed essa si sarebbe poi evoluta molto rapidamente nelle forme sofisticate che oggi conosciamo e studiamo.
Ciò escluderebbe, pertanto, l’ipotesi che il linguaggio umano abbia avuto origine attraverso un lento e prolungato sviluppo di versi e gesti. Per Miyagawa questa idea di “protolinguaggio” implica un salto evolutivo troppo grande: per creare una frase, infatti, non è sufficiente mettere una vocabolo in fila all’altro, perchè il significato di ogni termine cambia a seconda del contesto in cui lo inseriamo. L’ipotesi integrativa, che parte invece dal canto degli uccelli, contribuirebbe a colmare questo inspiegabile scarto introducendo lo stato espressivo. Una ricerca del 2009, inoltre, dimostra che alcuni pennuti possono imparare i richiami di altre specie, diventando in pratica bilingue o addirittura trilingue. Tra l’altro, la tesi integrativa potrebbe trovare un prezioso alleato nella genetica. Il gene FOXP2, scoperto nel 2001, viene definito “gene del linguaggio”, in quanto una sua mutazione può portare, tra le altre cose, a disturbi verbali. Una ricerca del 2014 ha dimostrato che, oltre ad esso, uomini e uccelli hanno in comune una cinquantina di geni correlati al linguaggio e all’apprendimento vocale.
Marcello Strano
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