PATERNÒ (CT) – Da martedì 21 novembre, i lavoratori del call center Qè, un’azienda di Brescia che operava attivamente nella città di Paternò (CT), poi fallita nel novembre 2016, hanno avviato un’occupazione a oltranza del Palazzo di Città (ex Palazzo Alessi). Il loro obiettivo è far sentire la propria voce alla vigilia della scadenza degli ammortizzatori sociali, prevista per il prossimo 6 dicembre. È un atto che rappresenta il culmine di un lungo anno di lotte, manifestazioni e tavoli di concertazione avviati con i rappresentanti della politica regionale e nazionale, ai quali i 600 lavoratori dell’ex Qè hanno chiesto, e continuano a chiedere, una deroga per le forme di sostegno economico, a fronte della scadenza di dicembre, e la garanzia del ritorno ai volumi di lavoro attraverso la restituzione della commessa Inps, in origine appartenente al territorio etneo. Nel corso della settimana di protesta, i lavoratori hanno ricevuto la solidarietà di molti: dai rappresentanti politici e sindacali, alle associazioni di volontariato locali, fino ai semplici cittadini del territorio etneo. Ma la pacca sulla spalla non è più sufficiente: il tempo sta scadendo e i lavoratori chiedono soluzioni concrete. Abbiamo intervistato, per Voci di Città, l’ex Rsu Qè, Anna Orifici, portavoce del gruppo dei lavoratori del suddetto gruppo, in protesta al Palazzo di Città.
Il problema del call center Qè nasce nel 2016, quando l’azienda chiude. Nel corso di questo anno vi siete battuti per ottenere dalle istituzioni delle soluzioni concrete; ma, in origine, com’è nata la situazione del Qè e come si è evoluta fino a oggi?
«Ti spiego subito. Non si è arrivati alla chiusura dall’oggi al domani: un giorno ci siamo trovati sul tavolo una procedura di licenziamento collettivo. Allora abbiamo cercato di trovare, con le organizzazioni sindacali, una sorta di strumento che potesse aiutare quest’azienda ad andare avanti. Abbiamo fatto un anno di cassa integrazione, poi scaduta nell’aprile 2016. Da quel momento abbiamo cercato di andare avanti con i Cds (Contratti di solidarietà), fino a quando, nel giugno 2016, iniziamo a non percepire più lo stipendio. Continuiamo a scegliere di lavorare, perché l’azienda affermava di non avere le disponibilità economiche per pagare gli stipendi poiché bisognava pagare il Durc così da continuare ad erogare la commessa. Noi abbiamo preferito rinunciare temporaneamente agli stipendi per permettere all’azienda di continuare a pagare il Durc e mantenere la commessa, al fine di tutelare i posti di lavoro e risollevare economicamente l’azienda. Da giugno abbiamo continuato a lavorare senza stipendi, ma ci siamo attivati per sensibilizzare la comunità sul nostro problema. Nel settembre 2016, dopo una nostra richiesta, siamo stati convocati in Prefettura e, in quell’occasione, l’amministratore delegato unico del Qè ci disse che avevamo perso anche la commessa dell’Inps, perché l’azienda non aveva il Durc regolare. A quel punto, iniziamo una serie di manifestazioni fino ad arrivare alla serrata aziendale, perché, non avendo più la commessa, non c’era più un lavoro per noi. Nel frattempo il proprietario della struttura in cui era situata l’azienda, dato che il Qè era oneroso anche nei suoi confronti, decise di riprendere il possesso della struttura e di chiuderla: i lavoratori rimasero, quindi,anche senza sede lavorativa. Tra l’altro, non siamo stati nemmeno licenziati nell’immediato: risultavamo dipendenti, ma senza lavoro e senza una sede per l’azienda. Mentre in Italia si lotta per lavorare, noi siamo stati costretti a lottare per ottenere il licenziamento per poi accedere a quell’unico sostentamento economico possibile per noi, rappresentato dagli ammortizzatori sociali. Finalmente, il 28 novembre 2016 viene ufficializzato il licenziamento collettivo e iniziata la procedura di mobilità. Da quel giorno abbiamo realizzato ogni iniziativa possibile, aprendo tavoli alla Prefettura e alla Regione, fino a riuscire a portare la nostra vertenza anche al Ministero dello Sviluppo Economico (MiSE) grazie alle numerose manifestazioni. Quando portammo la vertenza sul tavolo del MiSE, la Regione Sicilia, che era presente in quell’occasione, disse che c’era un imprenditore che aveva presentato un progetto valido alla Regione e che doveva essere attuato in Sicilia al più presto. Nel corso del 2017 abbiamo realizzato vari tavoli fino ad arrivare a oggi, precisamente a martedì scorso, quando abbiamo deciso di occupare Palazzo Alessi, sede del Comune di Paternò, poiché oggi si ha bisogno di risposte concrete. Sì, è vero, c’è l’imprenditore ed è stato avviato il progetto imprenditoriale annunciato dalle Regione Sicilia, ma al momento quest’imprenditore ha attive solo due commesse outbound; e se non gli vengono restituiti i volumi, non sarà in grado di assorbire i dipendenti provenienti dall’ex Qè. La situazione è grave e noi siamo veramente stanchi. Immagina che gli stessi Cds non ci sono mai stati pagati e i nostri soldi sono ancora bloccati all’Inps: quest’azienda ha rovinato 600 famiglie».
Il vostro striscione dice «Siamo tutti Qè». È una slogan interpretabile come il modo di affermare che questa situazione coinvolge non solo voi lavoratori, ma l’intero territorio?
«Esatto. Il numero delle persone coinvolte nella vertenza è davvero alto. Quando il call center Qè chiuse per fallimento, si parlava di quasi 600 lavoratori. È chiaro che nel corso della vertenza questo numero è leggermente diminuito, anche se non tantissimo, perché sappiamo che questo è un territorio martoriato dal punto di vista delle occupazioni, con un forte tasso di disoccupazione. Non è facile reintegrarsi e trovare un nuovo lavoro. Il nostro è un numero alto, formato per l’80% da persone provenienti dalla stessa città di Paternò e il resto dall’hinterland catanese (Catania, Biancavilla, Santa Maria di Licodia). E giacché il 6 dicembre si perderà anche l’unico sostentamento economico, ossia la mobilità, questo significa che scoppierà una vera e propria bomba sociale in tutto il territorio. Per questo motivo chiediamo che la vertenza del Qè non venga vista come la vertenza di quei soli 600 lavoratori, ma dell’intero territorio; perché non possono pagare sempre e solo i lavoratori le conseguenze di una cattiva gestione imprenditoriale e di un distacco istituzionale. Tra l’altro, la maggior parte delle persone impiegate in questo call center provenivano da commesse istituzionali quali Inps ed Enel. Diciamo che la colonna portante di quest’azienda era l’Inps; e succede che, dopo un anno di lotte e sacrifici, tutt’oggi non abbiamo ricevuto risposte concrete da Transcom, la cui società, al momento, gestisce la commessa Inps (il Qè aveva la commessa solo in subappalto). Certo, in questo anno abbiamo ottenuto una nuova realtà imprenditoriale, Netith del gruppo Di Bella, pronta a riassorbire parte dei lavoratori dell’ormai fallito Qè, ma manca la commessa istituzionale dell’Inps, la quale era, appunto, colonna portante dell’ex Qè».
Ed Enel che risposte vi ha dato?
«Enel ha dato una risposta positiva, perché sappiamo che nel momento in cui l’imprenditore andrà a concludere l’iter delle certificazioni per poter ricevere il bound, Enel restituirà in quota parte dei volumi dell’ex Qè. Transcom, invece, nonostante nei tavoli della Prefettura abbia dichiarato più volte la propria vicinanza ai lavoratori, ancora oggi non c’ha dato nessuna risposta. Quindi chiediamo a Transcom cosa voglia dire questa sua “vicinanza”, perché per noi “essere vicini ai lavoratori” significa che, nel momento in cui c’è un imprenditore disponibile, si deve tornare ai volumi. E appunto per questo ripetiamo che questi volumi non sono andati persi a causa dei dipendenti, ma per una cattiva gestione imprenditoriale. Noi lavoratori, oltre al danno, abbiamo ricevuto anche la beffa, lavorando per sei mesi senza ricevere stipendio al fine di tutelare quella commessa, che alla fine è andata persa ugualmente a causa di questa cattiva gestione. Pertanto, credo che meritiamo una risposta; e spero che sia positiva, perché dopo tutto quello che abbiamo fatto, un “no” non lo accettiamo. Noi andremo avanti, anzi verranno anche alzati i toni della protesta, dal momento che non si possono lasciare in mezzo a una strada padri e madri di famiglia chenon hanno colpa, se non quella di essere nati in un territorio disgraziato. Grazie a questa protesta, abbiamo ricevuto la vicinanza della deputazione regionale e nazionale e molte persone si sono dimostrate solidali, una cosa che ci riempie il cuore di gioia. Ma oggi non ci basta la pacca sulla spalla: abbiamo bisogno di risposte concrete. L’80% di questi lavoratori ha la scadenza della mobilità sociale il prossimo 6 dicembre, e non è una data lontana. Subito dopo, come faremo ad andare avanti? Molti hanno famiglie da mantenere, con mutui e tasse da pagare. Ormai nel call center non trovi più i classici ragazzi che lavorano come operatori per pagarsi gli studi universitari: quei ragazzi, lavorando per anni nel call center, sono cresciuti e hanno creato la propria economia su quello stipendio, diventando genitori. E tutti sappiamo benissimo che questo territorio non offre altro. Quindi, perché toglierci anche quest’opportunità? Il territorio non lo merita».
Che posizione ha assunto il Comune di Paternò e la Regione Sicilia?
«Lo scorso sabato, 25 novembre, il Comune ha indetto un Consiglio comunale straordinario in cui è stato presentato un documento, grazie all’intervento da parte di alcuni deputati regionali e nazionali e dei sindaci dei diversi comuni dell’hinterland catanese, i quali si sono impegnati ad acquisirlo, a loro volta, nei Consigli comunali. E in questo documento sono state presentate diverse risoluzioni da parte di queste rappresentanze politiche, che, tra l’altro, facevano parte di tutti i partiti. Il lavoro è dignità e la dignità non ha colore, nemmeno quello politico. Ora chiediamo che tutto questo possa concretizzarsi in tempi brevi. La Regione Sicilia, durante il Consiglio comunale straordinario, ha dato disponibilità, a partire da martedì 28 novembre, nell’aprire un tavolo di concertazione, così da metterci poi in contatto con il Ministero del Lavoro».
Quale soluzione proponete?
«Stiamo portando avanti la battaglia su due fronti: chiediamo una deroga sugli ammortizzatori sociali con un sussidio straordinario per sostenere economicamente le nostre famiglie; e, in secondo luogo, chiediamo che venga portato al tavolo di concertazione anche Transcom, così che si faccia carico di questi lavoratori. Chiediamo, e crediamo, che questi lavoratori meritino la possibilità di andare avanti e che Transcom concretizzi la sua vicinanza, restituendo quei volumi al territorio. In parole povere, domandiamo solo di poter lavorare. Non abbiamo più tempo, anche perché, a dicembre, non solo scadranno gli ammortizzatori sociali, ma ci sarà anche la scadenza della gara d’appalto per le commesse, e noi non vogliamo pagare anche questo scotto. Se riusciamo a riavere questa commessa sul territorio attraverso le clausole sociali, al di là di chi vinca la gara, la commessa rimarrebbe al nostro territorio, quindi legata ai lavoratori dell’ex Qè. Credo che lo meritiamo e che l’unione di tutti, nel volere un unico obiettivo, possa aiutare a vincere».
La vostra forza è diventata un modello per tutti quei lavoratori che si trovano nella stessa condizione. Potendo parlare direttamente a essi, cosa gli direste?
«Dico questo: ragazzi, non mollate mai. Non rassegnatevi a quello che ci circonda, né alla disperazione. Conosciamo la realtà del nostro territorio e l’assenza di opportunità lavorative, ma non dobbiamo arrenderci, perché se tutti portiamo avanti le nostre vertenze e tutti insieme facciamo sentire la nostra voce, devono ascoltarci».
Lunedì 27 novembre è giunta notizia che il caso Qè è arrivato anche in Commissione Lavoro del Senato, attraverso l’intervento delle senatrici Nunzia Catalfo e Ornella Bertorotta (Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-04115, http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Sindisp&leg=17&id=1058280). Ringraziamo i lavoratori dell’ex Qè per la disponibilità all’intervista e auguriamo loro di raggiungere al più presto i propri obiettivi. Voci di Città seguirà la vicenda e vi terrà aggiornati sui futuri sviluppi. Chi volesse contattare, o semplicemente far sentire la propria vicinanza ai lavoratori dell’ex Qè, può farlo su Facebook nel gruppo Salviamo i lavoratori del call center Qè, il quale al momento conta più di 2.000 membri.
Vanessa Genova
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