Si chiamerà Kraft Heinz Company il quinto gruppo alimentare del mondo, nato dall’accordo tra il gruppo Kraft, che fa capo a famosi brand quali la Philadelphia o le Sottilette, e la Heinz, particolarmente rinomata per la produzione di svariate tipologie di salse, una tra tutte il ketchup: numeri già da record quelli della compagnia, che vanta un fatturato di 28 miliardi di dollari annui, raggiungibili grazie all’impiego di quasi 50.000 lavoratori.
La maxi-operazione da 45 miliardi di dollari, conclusasi lo scorso 25 marzo, parte da un progetto del lungimirante Warren Buffett, presidente ed amministratore delegato della holding americana Berkshire Hathaway, in collaborazione con la società di private equity brasiliana 3G Capital , già proprietaria della catena di fast-food Burger King e di Anheuser-Bush, leader mondiale nella produzione di bevande alcoliche ed analcoliche: fu lo stesso imprenditore, conosciuto come “l’oracolo di Ohama”, ad acquistare nel 2013 la Heinz per 23,2 miliardi, ancora una volta grazie all’alleanza con l’azienda guidata da Jorge Paulo Lemann, il più facoltoso uomo del Brasile secondo la rivista Forbes.
Fiumi di denaro scorrono dietro alla fusione: la Heinz possederà il 51% delle quote societarie e verserà agli azionisti della Kraft circa 10 miliardi di dividendi (16,5 dollari per ogni azione), facendone schizzare alle stelle la quotazione a Wall Street. Bernardo Hees e John Cahill, un tempo alla guida delle due società, diventeranno rispettivamente presidente e vice-presidente della Kraft Heinz Company, la cui capitalizzazione di Borsa dovrebbe toccare quota 100 miliardi entro il 2017.
Cosa cambierà dal punto di vista strettamente alimentare? Si tratta esclusivamente di una manovra finanziaria oppure avverrà una rivoluzione anche nella produzione, riscontrabile coi nostri occhi sugli scaffali dei supermercati? Secondo Carlo Petrini, padre di Slow Food, le abitudini alimentari della popolazione mondiale si stanno modificando radicalmente: anche gli americani, i più famosi amanti del cosiddetto junk food (o cibo-spazzatura), prestano una sempre crescente attenzione verso le produzioni locali, mettendo così in crisi i programmi delle multinazionali dell’alimentazione, il cui unico obiettivo resta quello di chiudere in positivo i bilanci, risparmiando sui costi senza modificare il livello qualitativo della produzione. Nessun cambiamento tangibile insomma, a detta di Petrini: in un suo articolo sul quotidiano La Repubblica dello scorso 26 marzo, il gastronomo afferma che l’operazione ha l’unico scopo di tentare di arginare il diffuso cambiamento culturale e «servirà a risistemare nodi finanziari che sui mercati azionari non rendono quanto previsto dagli azionisti». Le persone vogliono cambiare, le multinazionali si oppongono: chi vincerà?
Claudio Pennisi
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