Con lo scandalo dei Panama Papers che risuona ancora nei corridoi dei palazzi della finanza mondiale, una nuova e gigantesca fuga di notizie è pronta a far tremare, di nuovo, i potenti. «Stessa spiaggia, stesso mare» cantava Piero Focaccia negli anni ’60, in questo caso il mare è lo stesso, nello specifico si tratta della parte di Oceano Atlantico che bagna i Caraibi, mentre la spiaggia è diversa. Infatti, si passa da Panama alle Bahamas. Cambia il paradiso fiscale, rimangono le vecchie abitudini: politici, imprenditori, banchieri, finanzieri, insieme a mafiosi, latitanti e trafficanti hanno aperto conti correnti e società anonime per sfuggire al fisco e alla giustizia. Così come fu per i Panama Papers, anche in questa mega-inchiesta c’è la mano dell’ICIJ, International Consortium of Investigative Journalists, rappresentato in Italia da L’Espresso. L’inchiesta, che per ampiezza è seconda solo ai Panama Papers, nasce da una fuga di notizie che ha portato alla luce un archivio di oltre 175mila società inserite nel Registrar General Department, l’imponente archivio di Nassau, capitale delle Bahamas. I documenti sono stati acquisiti del giornale tedesco Suddeutsche Zeitung che li ha messi a disposizione dell’ICIJ, dando vita ai #bahamasleaks.
Adesso siamo solo nella fase iniziale dell’inchiesta: i giornalisti dell’ICIJ, dopo aver scavato per mesi tra un milione e 300mila documenti (per un totale di 38 gigabytes), stanno cominciando a pubblicare solo ora i primi risultati. L’archivio offshore delle Bahamas riguarda oltre 175mila società registrate dal 1990 ai primi mesi del 2016. I file portano alla luce decine di società collegate a politici in carica o ad ex governanti delle Americhe, dell’Africa, dell’Europa, dell’Asia e del Medio Oriente. Questi documenti, però, non riguardano solo società offshore. Chi è ben inserito nei meccanismi dei paradisi fiscali, spesso decide di affidare le proprie fortune a entità ancora meno trasparenti: trust e fondazioni. Lo scopo è quello di erigere ulteriori barriere, nella speranza che non arrivino a varcarla magistrati e investigatori.
Guardando ai soggetti che creano e registrano queste società offshore, il nome più ricorrente fra i documenti, già ben noto grazie all’inchiesta Panama Papers, è solo uno: Mossack Fonseca. Lo studio legale, con sede a Panama, è considerato, in ambito di creazione e gestione di offshore, quarto al mondo. A nome di Mossack Fonseca sono registrate alle Bahamas ben 14.900 società. A seguire troviamo la banca svizzera Ubs che, tramite la Ubs Tustees Limited, ha accreditato 9.717 offshore, e il Credit Suisse che, con il Credit Suisse Trust Limited, ne ha aperte 8.299.
Tra i nomi registrati nelle offshore delle Bahamas ci sono i potenti di tutto il mondo. Il più sorprendente è, sicuramente, quello di Neelie Kroes, ex commissaria alla concorrenza dell’Unione Europea, in carica dal 2004 al 2010. Un nome che rischia di creare qualche problema e che creerà non pochi imbarazzi nelle istituzioni continentali. A Bruxelles, infatti, era stata soprannominata “Steely Neelie“, ovvero Neelie l’inflessibile. In molti si ricorderanno quando la Kroes intimava alle multinazionali: «Non potrete sottrarvi alle nostre regole fiscali». Nel mentre che lanciava strali mirati, aveva interessi non dichiarati alle Bahamas. Secondo i documenti ha rivestito la carica di director, cioè amministratore, dal luglio 2000 all’ottobre 2009, di una società offshore tuttora attiva: questa si chiama Mint Holdings Ltd, ed è stata creata nell’aprile di sedici anni fa proprio da Neelie Kroes.
Tra gli altri nomi diffusi dall’ICIJ, spunta Carlos Caballero Argaez, ministro dell’energia della Colombia dal 1999 al 2001. Nei file compare come presidente e segretario della Pavc Properties Inc., nonché direttore della Norway Inc.: la prima risulta proprietaria di un appartamento a Miami; mentre la seconda è titolare di un conto bancario, sempre a Miami, intestato al padre e spartito tra i figli dopo la sua morte. «Nego che ci sia un conflitto di interessi», si è difeso Caballero, spiegando come se nulla fosse, che sì, la sua scelta era stata determinata da «motivi fiscali».
Alle Bahamas era di casa anche Marco Antonio Pinochet, figlio dell’ex dittatore Augusto, che governò il Cile dall’11 settembre 1973 fino all’11 marzo 1990, rendendosi responsabile di innumerevoli crimini contro l’umanità. Marco Pinochet possedeva la Meritor Investments Limited, utilizzata per dirottare 1 milione e 300mila dollari al padre. Lo stesso dittatore, da parte sua, possedeva la Ashburton Company Limited, un’altra offshore locata alle Bahamas. Marco Pinochet non è l’unico figlio di dittatore che amava questo paradiso fiscale. Un altro nome che è uscito è quello di Abba Abacha, figlio del sanguinario generale Sani Abacha, presidente e dittatore della Nigeria dal 1993 al 1998. Sul conto intestato al figlio c’erano 350 milioni di dollari: corrispondenti a una parte di un bottino da tre miliardi di dollari sottratti allo Stato.
Sono molti altri i nomi rivelati, dallo sceicco Hamad bin Jassem bin Jaber Al Thani, premier e ministro degli Esteri del Qatar fino al 2013, fino ad arrivare al presidente dell’Argentina Mauricio Macri, con il padre Francisco e il fratello Mariano al seguito, passando per Ian Cameron, padre dell’ex primo ministro inglese David Cameron. Ulteriori nomi, nelle prossime settimane, saranno resi pubblichi dalle varie testate appartenenti all’ICIJ. Ovviamente, o purtroppo, come dir si voglia, è presente anche l’Italia con industriali, banchieri d’affari, nobili, big della finanza, avvocati e commercialisti, ma ancora nessun nominativo è stato reso pubblico.
Nicholas Shaxson, giornalista inglese, ha attaccato senza mezzi termini il paradiso fiscale: «Le Bahamas sono assetate di denaro sporco. Come Panama». Un’affermazione che il governo di Nassau ha respinto con fermezza, rispondendo che «Il paese onora le sue obbligazioni internazionali e collabora con le autorità». Di diversa opinione è l’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che ha prima inserito le Bahamas nella black list, ovvero l’elenco dei paradisi fiscali e societari, e poi le ha passate nella grey list, che contraddistingue chi non è in regola con gli standard internazionali. Ancora più pesante, forse, la reazione dell’Unione Europea, che ha inserito le Bahamas nell’elenco delle nazioni totalmente non cooperative.
La cosa che va capita è che, di base, non è illegale costituire una società offshore. Però, essa deve essere dichiarata al fisco, con chiara e specifica distinzione tra azionisti e amministratori. Per far scattare l’obbligo di redigere dichiarazioni fiscali è necessario ricevere un qualsiasi tipo di compenso dall’estero. Quando questi compensi vengono incassati e non dichiarati, scatta l’evasione. Ed è davvero difficile pensare che questi professionisti lavorino alle Bahamas gratuitamente.
Marco Razzini
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