NEW YORK – Negli Stati Uniti si registrano segnali di crescita superiori alle ben più rosee aspettative sul fronte impiegatizio. L’aumento delle ore di lavoro, infatti, va colto come un sintomo di ritrovata robustezza dell’occupazione, tanto che la Federal Reserve adesso potrebbe spingere il piede sull’acceleratore con il terzo rialzo dei tassi d’interesse nell’arco dell’anno solare.
Stando agli ultimi dati provenienti dal dipartimento del Lavoro, nel mese di giugno l’economia americana ha generato 222mila posti di lavoro e come se non bastasse sono stati rivisti al rialzo anche i numeri di aprile e maggio, con 47mila occupati in più rispetto a quanto dichiarato in un primo momento. Il tasso di disoccupazione ufficiale al 4,4% è segno di fiducia nel mercato del lavoro. L’unica nota stonata è rappresentata dal modesto aumento dei salari nell’ultimo anno (+2,5%), in quanto prima della crisi economica globale del 2008 essi viaggiavano sopra i tre punti percentuali.
Crescita si, ma senza un vero recupero sul piano salariale quindi, il che alimenta inevitabilmente una condizione di malessere diffuso e gravi diseguaglianze sociali un po’ ovunque. Se da un lato aumenta il numero degli occupati nel breve periodo, l’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla situazione stagnante degli stipendi. Questo è il vero punto di domanda su cui Donald Trump si gioca gran parte della propria credibilità al cospetto del suo elettorato, quella middle-class americana fiaccata dalla crisi. In mezzo alle tante, troppe, chiacchiere su protezionismo, frontiere e accordi sul clima, adesso si attendono risposte certe ed immediate in tema di lavoro, con la promessa fatta in campagna elettorale degli oltre 25 milioni di posti da sbloccare negli anni a venire attraverso la riforma del fisco.
Gabriele Mirabella
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