Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha dichiarato incostituzionale l’ammissione del cosiddetto “reddito minimo” a tutti i cittadini oppressi dalla disoccupazione, senza contare però che è proprio la Costituzione italiana a contemplare ciò. Nonostante questo, in molti pensano che potrebbe trattarsi di incoraggiamento alla cassa integrazione: é davvero così?
Al giorno d’oggi, una delle cose che sembra perpetrarsi più di ogni altra è la negazione di diritti, ritenuti inalienabili, dell’uomo. Fra questi il reddito minimo, ovvero una somma spettabile a ogni cittadino disoccupato. In base all’articolo 38, secondo comma, della Costituzione italiana, i cittadini devono, infatti, essere supportati da mezzi adeguati alle necessità della vita nel caso di infortuni, malattie, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria: secondo, invece, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, sarebbe incostituzionale l’entrata in vigore di questo sussidio, poiché consisterebbe in un assistenzialismo, lontano da una politica di sinistra che crea lavoro. In realtà, e ciò non è stato compreso dal Presidente, il reddito minimo consentirebbe un’esaltazione del significato del lavoro: non si parlerebbe infatti di welfare state, ovvero di assistenzialismo vero e proprio, ma di un aumento di ricchezza con la sua redistribuzione, ampliando, quindi, anche il benessere dello Stato. In molti Stati è vigente, tranne, per l’appunto, in Italia e in Grecia.
Per poter ottenere questa sovvenzione, in ogni nazione in cui sia valida, bisogna che la persona disoccupata vada in un centro di collocamento e constati che non vi sia un lavoro adeguato alla propria qualifica professionale. Per disoccupato, infatti, non s’intende una persona che ha perso il lavoro, ma colui il quale non riesce a trovare un’occupazione consona alle proprie specificità lavorative. Il reddito minimo contribuirebbe, inoltre, all’uniformazione tra lavoratori autonomi e dipendenti, poiché esso spetta a ogni individuo in difficoltà economiche. Ciò che pensano in molti è che se ciò non avvenisse, si tenderebbe a una sorta di fomentazione della cassa integrazione o della stessa povertà: difatti, qualora il sussidio toccasse solamente a operai dipendenti, una volta andati in cassa integrazione, o divenuti riceventi dell’importo ausiliario, costoro tenderebbero a soggiornare volentieri in quella situazione per continuare a ricevere l’aiuto economico.
In Italia, ciò che va di moda è anche il sostentamento di coloro già in condizioni finanziarie efficienti: si pensa alla creazione, per l’appunto, di un welfare universalistico proprio per abolire ogni disuguaglianza di questo genere. Beveridge (colui che ideò il reddito minimo nel 1942) intendeva proprio questo: tuttavia, furono gli oppositori del suo partito, i laburisti, a sostenere il fatto che in realtà si debbano sempre fare delle ricerche prima di accordare il sussidio in questione. In questo modo, in un Paese come l’Italia, dove la disoccupazione è al 12,7% e quella giovanile tocca addirittura il 43%, una fascia di popolazione si avvicina sempre più alla povertà, mentre un’altra fetta continua a cavarsela sempre e comunque. È importante sottolineare che in un Paese è indispensabile continuare a creare ricchezza affinché essa circoli e ne produca di altra: il reddito minimo contribuirebbe a raggiungere tale intento, allontanando finalmente dalla povertà ingenti porzioni di popolazione che si è vista negare anche i più basilari diritti, come quello ad una vita dignitosa.
Anastasia Gambera
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