Oggigiorno la piattaforma di Pornhub conta milioni di utenti, tra lavoratori e fruitori, in un’epoca in cui è ancora forte il conflitto fra taboo e uso. Il documentario di casa Netflix Money Shot: la storia di Pornhub – disponibile dal 15 marzo – esplora proprio la realtà e le controversie di questa immensa industria.
Da secoli, se non millenni, l’essere umano ha sempre fatto uso di materiale pornografico o pseudo per il proprio piacere personale. Se prima le uniche possibilità di fruizione si limitavano a riviste o film, con l’avvento di Internet – passando prima per l’ASCII art – il fenomeno della pornografia online si fece sempre più strada.
In questo contesto, come avveniva con film e musica pirata, nacque la piattaforma di Pornhub. Inizialmente nata da tre studenti della Concordia University, venne poi acquistata da Fabien Thylman. Con la sua società Mindgeek aveva fatto fortuna grazie ai processi di indicizzazione sul web: di fatti, grazie a ciò, riuscì a rendere Pornhub il primo risultato nei vari motori di ricerca; si tratta di un algoritmo simile a quello di Netflix e anche più efficiente.
Thylman venne poi accusato di evasione e la piattaforma venne acquistata da Antoon, Tassillo e Bergmain. Inizia così la seconda ascesa di Pornhub, divenuta sempre più famosa e pop grazie a collaborazioni e pubblicità. Si tratta infatti di un marchio ormai riconosciuto da tutti: basti pensare non solo al logo ma anche al motivetto musicale riproposto in tanti meme.
Il motivetto musicale di Pornhub
Il documentario porta in esempio il caso dell’attrice e influencer Gwen Adora. Lei ama definirsi sex worker, tanto sul piano professionale che politico, ponendosi proprio al centro di quel conflitto fra taboo e fruizione da parte del pubblico. Sia per la sua forma fisica che per il contenuto dei suoi video, Gwen è spesso stata vittima di critiche, quando la realtà mostra questa dilagante contraddizione: spesso, chi giudica e accusa di facciata, nel privato è il primo a essere fruitore di tali contenuti, anche dei più perversi.
Prima, dichiara Adora, non guardava di buon occhio Pornhub ma grazie alla creazione di ModelHub nel 2018 – la sezione con contenuti a pagamento – si è ricreduta. Come testimoniano infatti molti altri attori, a differenza dello sfruttamento delle case di produzione, la piattaforma ha consentito loro non solo una maggiore indipendenza economica ma anche un maggior controllo sul loro lavoro. È questo il caso di altre realtà come quella di OnlyFans.
Progressivamente la piattaforma venne sempre più coinvolta in scandali e accuse riguardanti la pubblicazione non consensuale di prodotti pornografici – come stupri – e soprattutto di pedopornografia.
Un primo movimento che si fece carico di queste vittime e prese il nome di TraffickingHub: dopo che forze dell’ordine e lo stesso sito ignorarono queste segnalazioni, si passò dunque a petizioni e azioni legali. La causa venne sposata anche da un giornalista del New York Times, ovvero il Premio Pulitzer Nicholas Kristof che prese in considerazione vari casi di pubblicazione di materiale pornografico non consensuale. Inoltre, segnalò delle possibili misure da adottare per la piattaforma, quali una maggiore moderazione e controllo tanto degli utenti quanto dei contenuti.
Ben presto, però, buona parte delle star di PornHub, esterne a questi scandali, si ritrovarono coinvolte in una vera e propria gogna mediatica: la giusta accusa di sfruttamento e abuso minorile (e non), si trasformò rapidamente in una crociata generalista contro la pornografia. A riguardo, proprio sulla distinzione tra lavoro e traffico, il documentario porta l’esempio dell’attrice Siri Dahl: vittima di violenza prima del lavoro, nonostante ciò, mostra come il problema non sia solo della piattaforma ma dell’intero sistema di Internet.
Nel 2021 si giunse a una prima udienza parlamentare: la causa riguardava la cancellazione di utenti non verificati. Sostanzialmente, l’accusa richiedeva una maggiore moderazione e sicurezza della piattaforma. Il documentario offre la testimonianza di un moderatore di Pornhub: un numero ridotto di 30 dipendenti dovevano controllare 700 video al giorno e ciò comportava non solo skip ma assenza di audio. Questo deriva anche dal fatto che si tratta del 9° sito più trafficato al mondo.
Entra poi in scena la NCMEC: si tratta di una organizzazione no profit che si occupa di scomparsa di minori, sfruttamento sessuale e tanto altro. In questa occasione prese a carico il caso dell’adolescente Serena Fleites: l’organizzazione non impone alcun obbligo alle aziende, queste però se avvisate sono portate a eliminare i contenuti incriminati. Tuttavia, nel caso di Fleites, oltre che all’ampio lasso di tempo impiegato, Pornhub eliminò il video ma mantenne commenti, tag e altri risultati.
La minorenne si finse la madre per ottenere giustizia e, dopo una prima cancellazione, i materiali venivano periodicamente ripubblicati liberamente. La causa fu presa così in mano da Michael Bowe: l’avvocato accusò l’azienda di frode, racket, doxing e non solo. Portò inoltre in esempio il caso dei Soprano, paragonando Pornhub a un’organizzazione mafiosa.
Oltre alla NCMEC, venne coinvolta anche la Exodus Cry: si tratta di realtà legate ad ambienti religiosi e di estrema destra. Non a caso, la prima portava il nome di MiM ovvero Morality in Media. Queste realtà accusavano anche, ingiustamente, testate quali Cosmopolitan e aziende come Steam o Google.
Tutte queste controversie si sono tradotte in episodi di foreshadowing e censura sui social a carico soprattutto di attori: oltre a ciò, sono stati anche bloccati i pagamenti su Pornhub per un periodo. Questo ha portato molti creator su OnlyFans, altra piattaforma negli ultimi anni molto in voga, e si temono ripercussioni anche su di essa.
Riccardo Bajardi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Articoli di proprietà di Voci di Città, rilasciati sotto licenza Creative Commons.
Sei libero di ridistribuirli e riprodurli, citando la fonte.