Le proteste, in America, aumentano giorno dopo giorno, supportate anche da Paesi di tutto il mondo. E quelli elencati sono solo un piccolo esempio di come la vicenda di George Floyd sia diventata il volto della lotta al razzismo. Eppure, ci sono persone che sottovalutano la questione, sia per una mancata esperienza diretta, sia per questioni culturali. E ciò che andrebbe condiviso, in particolare, è il fatto che le proteste riguardano tutti noi esseri umani.
Le proteste hanno tanti volti. Il Guardian, in un suo recente articolo, parlava di come gli “impiegati di Facebook fossero irritati“. La causa del loro star male nasce dalla mancata posizione politica di Zuckerberg, mentre il suo rivale, Twitter, con le due segnalazioni ai due tweet del presidente americano, anche se nel rispetto delle regole del social, ha guadagnato la stima di molti utenti. Le proteste, inoltre, non vengono dai piani bassi dell’azienda, ma anche dai vertici e dalle persone che gli sono più vicine. Aumentano in Giappone, in Inghilterra, in Francia, in Italia, e aumentano anche dall’altro lato nel mondo, da Paesi dove il razzismo sistemico degli States, non esiste. La discriminazione razziale che vivono le persone in America è un razzismo sistematico: c’è il gruppo della città, con la sua strada, il suo quartiere, la sua palazzina. In Italia, per esempio, quante città vantano dei quartieri popolati solo da persone di colore? Quante città italiane hanno avuto campi di canne da zucchero o cotone? Quanti italiani hanno avuto dozzine di schiavi di colore a popolare le piantagioni? Lo stesso discorso potrebbe essere esteso agli altri Paesi europei. La storia Americana ha vissuto anche una guerra in nome del razzismo, oltre che diverse riforme di legge, quindi, perché il caso di George Floyd riguarda tutti noi?
L’affermazione farebbe venire i brividi ai grandi maestri di logica, però è vero. Esistono gruppi in America che combattono il razzismo, ma ne esistono anche alcuni che combattono gli omicidi causati, e a volte insabbiati, dalla polizia. Quest’ultima, in America, si comporta in maniera troppo libera e finisce per realizzare numeri di morti e violenze che spaventano chiunque. E Trump, da questo punto di vista, sta spingendo le forze dell’ordine a comportarsi male. Ad Atlanta, il sindaco Keisha Lance Bottoms, donna democratica che in più occasioni ha sottolineato l’incapacità di Trump di guidare il suo popolo, ha annunciato, giorni fa, l’arresto di due poliziotti. E non importa, ora, se i due ragazzi aggrediti in macchina dai due poliziotti, nelle province della Georgia, fossero bianchi o neri, in questi casi il dilemma sorge dopo qualche semplice considerazione: il problema, in America, è il razzismo, ma nel resto del mondo? O meglio, qual è il problema in tutto il mondo?
Accusare le istituzioni è un’idea, ma sbagliata. Gli italiani, per esempio, potrebbero prendersela con il governo per quelle volte che sono state lasciate morire le persone in mare; i francesi, potrebbero avercela con il proprio per non aver saputo gestire il problema dei musulmani. Eppure, nell’accusare le istituzioni militari e politiche si finisce per entrare in un circolo vizioso, quello del puntare il dito contro. In Politica, succede spesso, come nel caso di Trump che attacca gli ANTIFA (anche se questo movimento in America non esiste ed è solo una parola per indicare il comportamento di alcuni studenti). In un recente articolo di Voci di Città è stato ricreato il percorso dei tweet di Trump, che rappresentano al meglio ciò che sta accadendo in America. E proprio quei post dei social, che hanno lanciato le proteste, rappresentano la chiave per leggere al meglio la situazione odierna. Si potrebbero fare tanti nomi a noi conosciuti, da destra a sinistra. Puntare contro il dito è un modo per distogliere l’attenzione, ma se è il popolo a farlo? Se siamo noi a prendercela con le istituzioni, da cosa vogliamo spostare l’attenzione? Forse da noi stessi?
Le proteste sono formate da persone di ogni tipo: chi davvero vuole cambiare le cose, e chi vuole solo creare caos e provare qualche brivido di troppo. Le persone che oggi stanno affrontando le forze dell’ordine sono le stesse che si lasciano bagnare gli occhi dal latte, per lenire le ustioni da gas lacrimogeno. Noi invece cosa abbiamo fatto in Italia? La nostra storia non è la più rappresentativa per combattere il razzismo, perché noi italiani, che in passato ne siamo stati vittima, non abbiamo subito, in realtà, le stesse violenze che subiscono gli americani afroamericani da secoli di storia. Ciò nonostante, tutto questo ci riguarda perché siamo noi che non abbiamo protestato davvero per le persone che muoiono ogni giorno. Il caso Floyd, quindi, da caso di razzismo si è evoluto anche a caso di violenza sociale, perpetrata sia da protestanti, sia dalle forze dell’ordine. Se vogliamo, però, cambiare davvero, non dobbiamo accusare i poliziotti, i politici o i manifestanti: ripartiamo da noi, che sul caso Floyd non abbiamo ancora espresso un’opinione; da noi che non ci informiamo sui barconi pieni di vittime; che vogliamo un’identità politica, ma non troviamo una narrazione che ci guidi. Ripartiamo da chi non vuole la pace, perché magari le violenze non le ha mai subite; o ripartiamo da chi la vuole, perché sa bene cosa significhi il dolore. Insomma, combattiamo tutta la violenza a partire dal razzismo.
Davide Zaino Pasqualone
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