CALTANISSETTA – Si sono appena chiuse le indagini nei confronti di Silvana Saguto, ex Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, accusata di aver mal gestito vari patrimoni mafiosi sequestrati; eppure inizia già a delinearsi un primo quadro abbastanza chiaro delle dinamiche interne alla Direzione investigativa Antimafia: sedici gli imputati e circa ottanta i reati contestati che vanno dalla corruzione, all’abuso d’ufficio, fino alla truffa aggravata e la scoperta di un autentico sistema criminale, nato con l’obiettivo di lucrare sui beni confiscati ai mafiosi.
Caso Saguto, la Finanza sequestra i beni all’ex magistrato antimafia https://t.co/aER8mSvAUs
— la Repubblica (@repubblica) 20 ottobre 2016
La vicenda prende le mosse da un decreto di sequestro urgente disposto dalla Procura di Caltanissetta nei confronti dei beni della dott.ssa Saguto, a seguito di un’intercettazione in cui Pino Maniaci – direttore di Telejato – parlava dell’esistenza di un «verminaio nell’antimafia […] che sfruttava le opportunità offerte dalla gestione di patrimoni sottoposti a sequestri preventivi per ottenere arricchimenti illeciti».
Un sistema basato sostanzialmente sulla perversione del Codice Antimafia e della normativa relativa alla disposizione a sequestro dei beni delle organizzazioni mafiose: questi erano individuati, sequestrati – a seguito delle indagini condotte dalla DIA – sulla sola ipotesi della (presunta) natura mafiosa e, infine, affidati ad un amministratore giudiziario che avesse il compito di custodire, disporre e gestire i beni «anche al fine di aumentarne la redditività».
Secondo gli ultimi rapporti dell’ANBSC, associazione competente per i beni confiscati alle organizzazioni mafiose, sono più di 12.000 le proprietà sequestrate: di queste, circa 800 sono aziende. In particolare, in questo caso, la maggior parte delle imprese vengono liquidate e chiuse ad opera delle gestioni dei vari amministratori giudiziari, spesso incompetenti se non – come in alcuni casi – addirittura in mala fede. Inutile sottolineare quanto l’economia siciliana abbia sacrificato in tal senso, anche ad opera del sistema messo in piedi dalla dott.ssa Saguto. Secondo quanto riporta la Procura di Caltanissetta, rivestirebbe un ruolo centrale nella vicenda l’avv. Gaetano Cappellano Seminara il quale si serviva di Lorenzo Caramma – marito della dott.ssa Saguto – per gestire grossi patrimoni derivanti da sequestri (come nel caso delle confische Padovani). Altri nomi illustri, implicati nella vicenda, sono quelli dell’ex Prefetto di Palermo Francesca Cannizzo e dei magistrati Tommaso Virga e Fabio Licata: questi ultimi avrebbero anche chiesto il rito abbreviato, in programma per il 20 Dicembre.
C’è anche da dire che, sfortunatamente, il caso Saguto non è l’unico esempio di cattiva gestione di patrimoni sequestrati alla mafia proveniente da Caltanissetta. Ha fatto scalpore, qualche mese fa, un servizio de Le Iene che vede protagonista Elio Collovà, amministratore giudiziario ed esperto di gestione di beni sottratti alla criminalità organizzata. Questi, dopo aver ricevuto l’incarico di gestire i patrimoni derivanti dai sequestri Di Vincenzo e Zummo, fonda la società AG Sinergie s.r.l tramite la quale compra il terreno appartenente alla prima impresa – adoperando le risorse della seconda – per costruire il c.d. Palazzo della Legalità: una «operazione di ingegneria finanziaria apprezzata in tutta Italia».
A questo punto la vicenda si infittisce: come emerge dal servizio, risultano delle irregolarità palesi relativamente alle cifre dell’affare. Non solo l’acquisto del terreno della Di Vincenzo è enormemente sovrastimato rispetto al suo prezzo reale ma, soprattutto, sono poco chiare le motivazioni dei compensi per gli amministratori (Collovà ha ricevuto due stipendi: uno per essere amministratore e l’altro per essere presidente del CdA). È anche sospetto in base a quale criterio siano stati assegnati ruoli e incarichi all’interno del progetto: in particolare, la posizione del cugino e del figlio di Collovà, il primo avvocato e il secondo architetto, appartenenti agli studi che ebbero in gestione l’immobile. Il tutto, si intende, approvato e controllato dal Tribunale. È anche doveroso aggiungere che la vicenda sfiora l’assurdo quando, sia per Zummo sia per Di Vincenzo, arriva la sentenza di assoluzione penale dalle accuse di mafia ma viene confermata la confisca preventiva dei beni.
Che si parli, come nel caso di Collovà, di «Antimafia che fa impresa» o che si parli, come dice Pino Maniaci, di «Antimafia mafiosa», è importante riconoscere che la lotta alla criminalità organizzata è oggi afflitta da un bipolarismo evidente: da una parte vi è la connivenza mafiosa delle Istituzioni, l’assunzione di atteggiamenti liberticidi frutto di una «legge del sospetto» che incoraggia gli abusi e permette il verificarsi di vicende come quella della dott.ssa Saguto; dall’altra vi è la necessità di fronteggiare il fenomeno mafioso, di combatterlo e di sconfiggerlo. Non per quella khomeinica riverenza alla giustizia alla quale il Collovà ha deciso di dedicare il palazzo della legalità di Caltanissetta ma perché combattere la mafia è un dovere, perché questa – indipendentemente da quanto possa entrare nella società, da quanto possa intrecciarsi, stringere alleanze e connivenze – sarà sempre «un fenomeno umano e, come tutti i fenomeni umani, ha un principio, ha avuto una sua evoluzione e anche una fine».
Francesco Maccarrone
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