L’elemento fondamentale per la produzione delle batterie al litio ricaricabili, fonti di energia di qualsiasi tipo di dispositivo elettronico portatile, viene – ormai, sempre di più – ottenuto tramite il lavoro sottopagato e disumano di adulti, e soprattutto bambini, nelle miniere della RDC (Repubblica Democratica del Congo): invece di andare a scuola o – magari – lavorare, i congolesi cercano il cobalto.
Secondo quanto riporta un’indagine congiunta di Amnesty International e Afrewatch, i principali colossi del settore elettronico (Apple, Samsung e Sony) non conducono i dovuti controlli volti ad assicurare la tutela dei diritti umani e dei lavoratori: nelle miniere congolesi il lavoro minorile e lo sfruttamento salariale è il pane quotidiano dei minatori. Il rapporto – dal titolo Questo è ciò per cui moriamo: Abusi dei diritti umani in RDC alimentano il commercio globale di cobalto – descrive minuziosamente il viaggio che il cobalto compie dai più remoti meandri del sottosuolo alle grandi industrie di lavorazione, passando per le mani di uomini e bambini (talvolta al di sotto dei 7 anni) che lavorano in condizioni estremamente insicure e lesive della salute. Più della metà del cobalto impiegato negli strumenti elettronici della vita quotidiana di un uomo degli anni 2000 proviene dalla Repubblica Democratica del Congo. Secondo le stime del Governo Congolese, il 20% dell’elemento in questione viene estratto da minatori artigianali nella regione del Katanga, a Sud del Paese. Nella stessa zona si stimano circa tra i 110.000 e i 150.00 minatori artigianali.
La RDC occupa la posizione 136/188 nell’Indice di Sviluppo Umano dell’UNICEF: essa è logorata quotidianamente da conflitti interni, specchio della mancanza di forza delle istituzioni statali. I minerali preziosi sono l’unica fonte concreta e valida di sostentamento per molti congolesi. La maggioranza di essi lo estraggono in maniera del tutto autonoma e senza i dovuti permessi. Il loro modus operandi è abbastanza “facile”: tramite l’uso di semplici scalpelli vengono scavate profonde gallerie, le quali – ovviamente – non sono munite né di ventilazione né delle dovute misure di sicurezza. In alternativa alcuni setacciano abusivamente i materiali di scarto delle miniere industriali della Regione. La costante esposizione a polveri sottili e pesanti contenenti cobalto può causare malattie alle vie aeree come asma e malfunzionamento dei polmoni. I tunnel artigianali, inoltre, vista la loro precarietà, crollano abbastanza spesso provocando centinaia di morti all’anno. Una stima firmata UNICEF ha rivelato che nelle miniere congolesi, durante il 2014, lavoravano circa 40.000 bambini (e bambine). Questi, intervistati dai ricercatori di Amnesty, hanno dichiarato di aver eseguito turni di lavoro di 12 ore al giorno, per poi guadagnare – in media – uno o due dollari. I piccoli minatori, vista l’impossibilità delle famiglie di poter pagare le tasse scolastiche, vengono impiegati nei lavori manuali a fianco degli adulti. I danni alla loro salute e il rischio a cui sono costantemente sottoposti è impossibile da stimare.
Il prodotto minerale ricavato dai minatori viene successivamente venduto a degli intermediari presso i mercati locali. Questi ultimi lo rivendono, dopo, a grandi aziende che lavorano nel Paese, le quali esportano il “cobalto grezzo” nei loro stessi stabilimenti. Sempre grazie ad Amnesty è emerso che la Congo Dongfang Mining International (CDM), del cinese Zhejiang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), sta al centro di questo piccolo grande sistema. La Cdm e la Huayou cobalt, infatti, dopo aver lavorato il cobalto, lo rivendono rispettivamente a Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina, oltre che a L&F Materials in Corea del Sud. A loro volta questo trio rivende il loro prodotto ai maggiori produttori di batteria, che lo rigireranno ai più importanti colossi dell’elettronica mondiale.
La realtà dei fatti è celata dalla falsa ignoranza di queste aziende sulla provenienza del cobalto, indispensabile quanto l’ossigeno per l’uomo. Cosa importa se un bambino muore in miniera o si ammala mortalmente? La produzione a basso costo è il motore del loro lavoro: non è importante come, basta che si lavori. In vero, esse non sono neppure obbligate a dichiarare la provenienza dei loro materiali: il diritto internazionale ha grosse lacune in materia. In base a quanto affermato da Amnesty, ad oggi il mercato del cobalto non è regolato, nemmeno nei “minerali dei conflitti” (che comprende invece oro, coltan, stagno e tungsteno). Cosa fare dunque? Le aziende dovrebbero mettere in atto la cosiddetta “due diligence” (condurre una ricerca approfondita sui loro fornitori diretti e indiretti, imponendo il rispetto di diritti fondamentali quali quelli dell’uomo). Dal suo canto, però, la Rdc dovrebbe far valere la legalità nelle miniere abusive e i diritti dei lavoratori: più facile a dirsi che a farsi visto le difficoltà interne che sta vivendo la Nazione. Mancherebbero inoltre delle norme atte a garantire trasparenza e informazione.
Amnesty ha – dopo la suddetta ricostruzione – contattato 16 multinazionali, clienti delle tre aziende che comprano il cobalto dalla Huayou Cobalt o dalla CDM. Esse sono Ahong, Apple, Byd, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e Zte. Di queste soltanto una ha ammesso tutto, quattro si sono dichiarate all’oscuro di tutto, cinque hanno detto di non impiegare nel loro lavoro i prodotti della Huayou Cobalt, due hanno bistrattato la necessità di rifornirsi nella Repubblica Democratica del Congo e sei hanno promesso di condurre indagini in merito: nessuna delle 16 aziende, comunque, ha fornito informazioni dettagliate. “Del resto una mano lava l’altra: Tutti colpevoli, e così sia! Sempre accusando, sempre cercando il responsabile, non certo io”. È ammissibile che le suddette aziende non sappiano da dove provengono e come sono estratte le materie prime del loro lavoro? Alcune accusano persino Amnesty di essere degli “artigiani di scoop forzati”, forse perché hanno il carbone bagnato. Anzi, il cobalto.
Francesco Raguni
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