Rapido e inaspettato, il déjà-vu consiste nell’illusoria sensazione di aver già vissuto una certa scena al momento del suo verificarsi nel presente. Una sorta di falso ricordo razionalmente confutabile dopo qualche secondo da chi l’ha percepito, ma in grado di scombussolare il soggetto interessato, costringendolo a distinguere bruscamente il sogno dalla realtà. Non manca al misterioso fenomeno l’essere stato oggetto, nel corso degli anni, di svariate teorie volte ad attribuirgli una spiegazione; e, se c’è chi parla di veggenza o di reincarnazione, molti ricercatori hanno cercato soluzioni partendo da basi scientifiche, nonostante le difficoltà nel riprodurre tale strana e involontaria percezione in laboratorio.
Fino a qualche settimana fa, le ipotesi maggiormente tenute in considerazione riguardavano l’attività elettrica del cervello, l’una, e il sistema di ritenzione dei ricordi e il suo rappoorto con gli stimoli esterni, l’altra. Sembrerebbe, però, che la sensazione dell’aver già visto, più che un bug del nostro cervello che imprimerebbe nella nostra memoria una scena creando una bugia cerebrale, e, dunque, una mancata corrispondenza tra i percorsi neurali, sarebbe un check, ovvero una verifica dei ricordi già acquisiti. La scoperta, ancora da approfondire e verificare, è stata presentata il mese scorso alla Conferenza internazionale sulla memoria di Budapest e ripresa dal New Scientist, e arriva da un team dell’università scozzese di Saint Andrews.
Per ovviare al problema della riproducibilità del déjà-vu, il gruppo di ricercatori guidato da Akira O’Connor ha provato a surrogarlo, tentando di indurre su alcuni soggetti un’esperienza con la stessa logica e basata su una tecnica spesso utilizzata per evocare falsi ricordi. Così, sono state dette a ventuno volontari parole attinenti ad uno stesso campo semantico (letto, cuscino, notte…); l’elenco era, però, privo del termine chiave che le avrebbe collegate tutte (sonno). Successivamente, è stato loro domandato se avessero udito una parola iniziante per s e la risposta è stata negativa. Poi, però, gli studiosi hanno chiesto loro se avessero sentito la parola sonno ed è allora che i partecipanti hanno avvertito una strana confusione: sapevano di non aver ascoltato vocaboli con la s (e lo hanno anche confermato), ma hanno provato la sensazione di aver sentito il lemma in questione, in quanto strettamente evocato dal campo lessicale a cui tutte le parole in elenco appartenevano. Tuttavia, nonostante l’avvertita familiarità con il termine, i soggetti sono riusciti a negare di aver assistito alla sua pronuncia.
Per Akira O’Connor questo significa che il cervello, in simili circostanze, controlla in memoria che non ci sia una sorta di errore tra quanto si vive e quanto si pensa di aver vissuto, il che sarebbe sinonimo del buon funzionamento della nostra materia grigia, ancora in grado di distinguere e correggere i falsi ricordi. Non sarebbe un caso, perciò, che tali sensazioni siano meno frequenti nelle persone anziane.«Si tratta di una battaglia tra una sensazione soggettiva di familiarità e la sensazione oggettiva che tale familiarità non può essere reale», spiega inoltre. Niente paura neppure per il 30% di popolazione che non ha mai scambiato il presente col passato: secondo O’Connor, infatti, ciò significa che la loro memoria è molto efficiente e che non c’è in essa nulla da correggere, nemmeno il più breve episodio.
Concetta Interdonato
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