Una vita a rincorrere il proprio sogno e i propri diritti. Questa è la storia di Hassiba Boulmerka, una donna venuta dall’Algeria per far conoscere al mondo la propria storia, vincendo un’oro olimpico e sfidando una condanna a morte.
Prima di iniziare a raccontare la storia di oggi, mi piacerebbe ricordare insieme a voi, una delle figure più importanti del giornalismo italiano, che proprio un anno fa di questi tempi veniva a mancare: Gianni Mura.
Una figura così grande che sarebbe banale definirlo solo un giornalista. Egli, nella sua carriera, è stato tutto quello che ha voluto essere: uno scrittore, un poeta, un uomo col sogno di fare il cantautore, che cantava con la sua macchina da scrivere “Olivetti lettera 32” le gesta degli sportivi e quelle di tante persone che solo lui conosceva.
Gianni Mura è stato uno di quei pochi giornalisti a essere davvero amati da chi li stava intorno: dalla moglie, una storia speciale la loro che li ha portati, anche, a scrivere insieme delle recensioni enogastronomiche; dagli altri giornalisti, per il suo essere grande ma allo stesso tempo umile; dai lettori, con i quali andava, addirittura, a cena. Gli piaceva ascoltare le loro storie, quelle di ogni giorno, quelle che ognuno di noi poteva raccontargli se solo avessimo avuto l’onore di cenare con lui. Il suo segreto? Semplice, l’onestà. Una virtù che sempre lo ha contraddistinto sia come uomo che come giornalista.
La storia che vorrei raccontare oggi è una di quelle che a Mura avrebbe fatto piacere ascoltare. Una di quelle storie che in pochi conoscono e che anch’io sconoscevo fino a quando non l’ho letta, qualche tempo fa, nel libro di Gianluca Vialli “Goals“, in cui vengono narrate novantanove storie di sport per affrontare le sfide più difficili della vita.
Questa storia è quella di una donna che, attraverso lo sport, è diventata simbolo di libertà per tutte le donne del suo Paese.
Hassiba Boulmerka è una donna algerina, piccola di statura (1,56 metri per 52 chili) ma grande per il suo coraggio e per la sua determinazione. È un’atleta promettente che ama correre fin da quando aveva dieci anni, che però non è per nulla amata dai suoi connazionali, perché corre in pantaloncini e canottiera e a volto scoperto.
Uno scandalo, in un Paese, in cui le donne vengono fortemente discriminate, anche a livello legale. È con questa realtà che Hassiba deve fare i conti e poiché è stufa di essere considerata un’offesa all’Islam, per il suo abbigliamento da corsa, decide di allenarsi lungo le valli assolate algerine dove spera di non incontrare nessuno.
Ma non sempre è fortunata e a volte incrocia qualche pastore, a volte un viandante e la scena è sempre la stessa: la insultano, le sputano addosso, le tirano pietre, qualcuno cerca persino di rapirla pur di farla fermare. Più volte si limitano a minacciarla: “Farai una brutta fine“.
I genitori la pregano di smettere con lo sport, ma lei non ne vuole sapere: la corsa è la sua vita, gareggiare in un’olimpiade il suo obiettivo e sa che in gioco non ci sono solo i suoi sogni, ma anche quelli di tutte le ragazze come lei.
Hassiba non cede, schiva le pietre e gli insulti e continua a correre fino a quando, nel 1991, viene selezionata per i mondiali di atletica di Tokyo. Una volta fuori, sulla pista, la sua storia diventa di dominio globale: sono milioni gli occhi che vedono il suo volto scoperto e le sue gambe nude arrivare per prime nel rettilineo dei 1500 metri, conquistando l’oro.
“Questa vittoria è per tutte le donne algerine, per tutte le donne arabe” dice commossa subito dopo la gara. Il suo messaggio arriva forte e chiaro anche agli integralisti del suo Paese che ne segnano il nome condannandola a morte. È costretta a rifugiarsi in Europa, dove continua ad allenarsi perché il suo sogno di gareggiare in un’olimpiade non è stato ancora realizzato.
Con enormi pressioni del comitato olimpico, riesce a partecipare all’olimpiade di Barcellona, quelle del 1992. La Diadora, lo sponsor tecnico, le crea una divisa personalizzata con pantaloncini lunghi che le coprono gran parte delle gambe. Hassiba accetta di indossarli ma rifiuta di coprire testa e braccia. Corre, appesantita dai pregiudizi, dagli insulti, dalla condanna a morte, ma in pista è leggera e libera come una farfalla e vince, vince ancora, l’oro olimpico, il primo della storia per quanto riguarda l’Algeria in una gara olimpica.
“Questa vittoria è per chiedere che, attraverso lo sport, la società araba riconosca la donna“. Lo dice alzando i pugni, in segno di vittoria e ribellione allo stesso momento. “Ormai ho vinto e parlato. Se anche mi ammazzano, è troppo tardi“.
Infatti riesce a tornare in Algeria, ma è un ritorno senza onori, tra le maceria di un Paese sconfitto da se stesso, da un padre che per l’eccesso di tensione viene colpito da un infarto. Non se ne andrà più da lì, dalla sua Constantine: “Qui è la mia vita, le mie radici, la mia famiglia e i miei amici. Non posso rinunciare a tutto questo”.
Credo che al mondo non ci sia un mezzo di comunicazione migliore e potente dello sport. Più dei giornali, più dei blog, più dei social network, la letteratura sportiva è piena di storie come questa. Storie che si sono contraddistinte per la lotta contro ogni forma di discriminazione o genere.
Molti staranno pensando che sarebbe stato più adatto raccontare questa storia l’8 marzo, giorno della festa della donna. Ma temo non sia corretto, perché non basta celebrare la donna un giorno all’anno e poi nei restanti 364 giorni fare tutto il contrario di tutto.
Ho voluto raccontare questa storia, oggi, perché di recente, proprio in uno di quei 364 giorni dell’anno, un Paese come la Turchia ha deciso di ritirarsi dalla convenzione di Istanbul, promossa dal Consiglio europeo, contro ogni tipo di violenza sulle donne.
Ho voluto raccontare questa storia, oggi, perché in ognuno di quei 364 giorni dell’anno, in una nazione come l’Italia, numerose donne vengono uccise o violentate dai propri fidanzati perché lasciati, o perché troppo gelosi o troppo ubriachi.
Ho voluto raccontare questa storia, oggi, perché il mondo non è cambiato dalle mimose, dalle parole, dai messaggi, dai comportamenti che assumiamo un giorno all’anno, ma dall’esempio che diamo nei restanti 364 giorni dell’anno.
Ho voluto raccontare questa storia, oggi, per ricordare che nessuna società, nessuna religione, nessun politico, nessun prepotente, potrà mai avere la meglio se prendiamo come esempio la storia di Hassiba Boulmerka: una donna che fin da quando ha dieci anni ha rincorso il proprio sogno, i propri diritti!
Dedicato a tutte le donne, in particolare, quelle vittime di violenze o discriminazione e a Gianni Mura, colui che di storie come queste ne ha scritte e sentite a dismisura.
Fonte foto: flickr.com
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Giuseppe, classe 1999, aspirante giornalista, è laureato in Scienze Politiche (Relazioni Internazionali). Fin da piccolissimo è appassionato di sport e giornalismo.
Simpatiche, si fa per dire, le scene di quando da piccolo si sedeva nel bar del padre e leggeva la Gazzetta dello Sport “come quelli grandi”.
È entrato a far parte di Voci di Città, prima, come tirocinante universitario e, poi, come scrittore nella redazione generalista e sportiva. Con il passare del tempo, è diventato coordinatore sia della redazione sportiva che di quella generale di VdC. Allo stesso tempo, al termine di ogni giornata di campionato, cura la rubrica settimanale “Serie A, top&flop” e scrive anche delle varie breaking news che concernono i tempi più svariati: dallo sport all’attualità, dalla politica alle (ahimè) guerre passando per le storie più importanti, centrali o divertenti del momento.
Il suo compito in sintesi? Cercare di spiegare, nel miglior modo possibile, tutto quello che non sa! (Semicit. Leo Longanesi).