Il crop top, croce e delizia degli anni ’90, è ritornato di gran moda negli ultimi tempi. Non importa chi possa o non possa portare questo trend, dopotutto quello che conta è avere un busto e volergli “dare aria” con stile, specie nei lunghi e afosi giorni estivi. Ma non sempre il crop top viene visto come qualcosa di cool: alcune studentesse sono state prese di mira e sono state costrette a difendere il loro lembo di pelle scoperta come un qualcosa di “non sessuale” e non provocatorio”.
É il caso di Alexi Halket a Toronto, la quale è stata richiamata da un insegnante per aver indossato, a detta sua, una maglietta che sembrava «quasi un reggiseno sportivo». Invitata a coprirsi, Alexi non ha voluto farlo, ed è stata mandata a casa dalla preside prima della fine delle lezioni. La ragazza sosteneva infatti che l’esporre la pelle della pancia non è una cosa intrinsecamente sessuale e che è una vergogna che vengano ancora giudicate le scelte di abbigliamento .
Così la ribelle Alexi, considerato questo rimprovero un «diktat sessista», ha lanciato il Crop Top Day, invitando le sue amiche e tutte le studentesse della scuola a fotografarsi con indosso un top crop (ma anche con i reggiseni sportivi) e a pubblicare l’immagine sui social per dimostrare che non c’è nulla di male a scoprire una parte del proprio corpo. La risposta è stata immediata e su Twitter è nato l’hashtag #StandInSolidarity. Martedi scorso inoltre il Crop Top Day è stato dettagliatamente documentato e postato sui social network; cadeva anche il compleanno di Alexi.
Ora, immaginiamo bene cosa potrebbero eccepire eventuali oppositori: se esistono dei dress code o delle uniformi è perché così si mantiene l’attenzione dei ragazzi sugli studi, e non su altro. Ma si sa, se non sono i vestiti, ci saranno sempre e comunque delle cose che distraggono gli adolescenti. Il punto non è che tutte le studentesse vogliono indossare il top aderente, ma che nelle scuole dove non si richiedono uniformi, il codice di abbigliamento applicato è paradossalmente molto più severo delle scuole con le uniformi nei confronti di ragazze adolescenti – la fascia di popolazione più in sintonia con le tendenze commerciali in voga – che vogliono dunque essere più libere di indossare ciò che vogliono (nei limiti sempre, del rispetto per se stessi e degli altri).
É incongruo e strano che, dato come aggressivamente l’industria della moda propini modelli e tendenze che le adolescenti “devono” seguire, siano quest’ultime a dover essere biasimate dagli adulti, e non le aziende. Si pensi ai jeans a vita bassa degli anni ’90, o alle minigonne degli anni ’60, quando le insegnanti umiliavano scrutando quanto fosse corto l’orlo delle suddette. Perché sono sempre gli insegnanti e gli educatori a sottolineare l’adeguatezza dell’abbigliamento delle ragazze. E se essi sono distratti dai loro studenti in tal senso, allora, forse, hanno intrapreso il mestiere sbagliato.
Chiara Grasso
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