Perché i giorni di festa sono perlopiù legati a celebrazioni religiose, nonostante l’Italia sia uno stato laico? Cerchiamo di fare chiarezza su una questione che suscita sempre più polemiche, tra commemorazione e consumismo.
Il primo novembre è la festa di Tutti i Santi, popolarmente nota come Ognissanti. In questa giornata, così come durante la Pasqua e il Natale, le attività quotidiane si fermano: la maggior parte delle persone non lavora, gli uffici sono chiusi e tutte le attività seguono il rituale dei giorni festivi. Nonostante avere, oltre la canonica domenica, una giornata in più per rilassarsi faccia piacere a tutti, sono diverse le questioni da analizzare a riguardo. Prima su tutte è una domanda, che molti si pongono: perché se l’Italia, come stabilito dagli articoli 7 e 8 della Costituzione, è uno Stato che si professa laico, si rivela, in realtà, così rigoroso verso festività legate alla religione cristiana? In prima battuta è importante chiarire che, spesso, il concetto di laicità viene confuso con quello di ateismo, il che è semanticamente sbagliato. Per laico si intende chi segue una politica libera da condizionamenti religiosi di qualsiasi tipo; invece, l’ateo è colui che nega completamente l’esistenza di una o più divinità e soprattutto non professa in alcun modo la religione. Pertanto, uno Stato a professione laica, come il nostro, non nega l’esistenza della religione, ma semplicemente non esprime una preferenza verso uno o l’altro culto, lasciando liberi i cittadini di professare qualsiasi tipo di religione. Questo passaggio è avvenuto nel 1984, quando l’Italia si convertì da Stato confessionale a Stato laico. Le novità portate dal “Nuovo Concordato” videro la realizzazione di un lungo iter iniziato nel 1929, con il quale venivano gestiti i rapporti tra il governo italiano e lo Stato Pontificio, sanciti dai Patti Lateranensi. Le novità più importanti furono: l’abolizione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato, con la sua conseguente abolizione, l’obbligo dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche (divenuto così facoltativo), e la “Congrua”, il sostentamento economico dei sacerdoti, fino ad allora a totale carico dello Stato.
Nonostante l’ufficialità enunciata dalla Costituzione, non si può omettere il fatto che l’Italia presenti uno sfondo culturalmente legato alla religione cristiana molto forte. Le festività religiose sono sentite più come consuetudine, che come veri rituali commemorativi, e per questo motivo la maggior parte di noi non sarebbe disposta a rinunciarvi. Indubbiamente, la presenza dello Stato Vaticano e la storia del nostro Paese, sempre invischiato in affari religiosi più o meno rilevanti, rappresentano qualcosa che non può essere ignorato. Siamo culturalmente abituati a ritenere la domenica il giorno festivo per eccellenza, senza considerarne per forza il significato religioso a essa collegato. Sempre meno persone si dichiarano apertamente cristiane; ancora meno sono praticanti. La messa è un rituale andato ormai in disuso da molte famiglie, le stesse però, che non rinuncerebbero a un giorno di ferie in più. Ad esempio, la festività dell’Epifania (6 gennaio), venne abolita nel 1977 con il decreto legge n. 54, trasformandola in giornata lavorativa. Questo sconvolse talmente tanto le abitudini culturali del nostro Paese, che dopo otto anni, nel 1985, sempre a seguito di un decreto ministeriale, venne reintrodotta. Questo è solamente uno degli esempi di tentativo mal riuscito, da parte del Governo, di gestire meglio i rapporti tra Stato e Chiesa, la quale, volendo o non volendo, è fortemente radicata nel nostro territorio.
Certamente non mancano le polemiche in merito. L’UAAR, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, lotta fin dai tempi della sua fondazione, nel 1991, per il raggiungimento dell’effettiva laicità dello Stato italiano. Attraverso manifestazioni e incontri, perseguono l’obiettivo di diffusione di idee atee e agnostiche al maggior numero di cittadini. Inoltre, c’è anche chi sostiene che le festività, con un focus speciale rivolto al Natale, vengano mantenute perché legate all’aspetto economico. Regali, addobbi, vacanze e cibo sono soltanto alcuni dei beni di consumo di cui largamente abusiamo durante questi periodi di festa. Molti criticano proprio l’aspetto consumistico di queste celebrazioni, i quali ormai hanno poco o nulla a che fare con la religione, e per questo motivo vorrebbero abolirle. Dall’altra parte, c’è chi invece alle festività è molto legato e suggerisce ai contestatori che anche in queste giornate nessuno vieti loro di lavorare: volontariato, manutenzione pubblica, lavori socialmente utili eccetera, sono soltanto alcuni dei consigli che vengono dati.
Stabilire chi abbia ragione o torto, appare più che mai complicato, forse perché non esiste una soluzione che andrebbe bene a tutti. Se è vero che l’aspetto preponderante, oggi, è quello culturale (e purtroppo anche quello legato al consumismo), è anche vero che la religione cattolica è quella maggiormente professata nel nostro Paese, e che rappresenta una tradizione che non può e non deve essere eliminata dalle nostre menti. Certamente, staccare cadenzatamente la spina è ciò che tutti desiderano, dai credenti agli agnostici. «Chissà, magari per chi non volesse dare un nome alle giornate di relax e convivio, basterebbe viverle come “vacanze invernali” o “pause primaverili”».
Sara Forni
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