Pablo Emilio Escobar Gaviria, conosciuto semplicemente come Pablo o El Patron, in questi ultimi mesi è stato eretto a vero e proprio mito dagli amanti delle serie tv, grazie all’ormai famosissima Narcos, prodotta da Netflix in due stagioni da dieci puntate. Il signore della droga, divenuto famoso in tutto il mondo nei primi anni ’90 grazie alla rivista Forbes, la quale gli attribuiva il settimo patrimonio più ricco del mondo (30 miliardi di dollari), il controllo dell’80% della cocaina e del 30% del traffico di armi illegali nel globo, è tutt’ora molto amato in Colombia, per quella fama di “Robin Hood” che si costruì grazie alla realizzazione di case, chiese, stadi e un intero quartiere, nonché alla diffusione di ingenti somme di denaro alla popolazione più povera.
Il 2 Dicembre del 1993, un giorno dopo il suo 44esimo compleanno, Pablo Escobar perse la vita nella sua Medellin, in una sparatoria con il Search Bloc, una speciale task force della polizia colombiana che venne appositamente creata per la cattura e l’uccisione del potentissimo Pablo. Ma andarono veramente così le cose? A quanto riporta Juan Pablo, il figlio, nel suo ultimo libro, non proprio.
Ma andiamo con ordine. L’inizio della fine di Don Pablo lo possiamo incentrare nel fallimento del suo sogno più grande: diventare il Presidente della Repubblica della Colombia. Nel 1983, infatti, viene eletto deputato alla camera, come primo step verso il grande obiettivo, ma, diffusasi una sua foto segnaletica alla polizia di Medellin, venne costretto a dimettersi dalla carica e a rinunciare per sempre al desiderio di poter governare il suo paese natio. Resosi poi responsabile dell’uccisione di 3 candidati presidenti, dell’attentato al volo Avianca 203 (con oltre 100 morti) in cui si sarebbe dovuto trovare il futuro presidente Gaviria, e di altre stragi di massa (seguiva il modella Riina, sempre secondo il figlio), i rapporti con il governo colombiano si infittirono e la volontà di catturarlo salì di giorno in giorno.
Nel 1991, così, El Patron si consegnò spontaneamente alle autorità, per farsi rinchiudere nella prigione di lusso La Catedral, fatta costruire da lui stesso. Le foto del comfort in cui viveva l’intero cartello di Medellin e varie informazioni raccolte secondo cui Escobar usciva per frequentare stadi, negozi e feste, indignarono l’opinione pubblica, che chiese a gran voce il trasferimento in una prigione ordinaria. Conoscendo le intenzioni del governo Pablo non restò con le mani in mano e attuò un’ingegnosa fuga grazie alla quale evitò per sempre l’estradizione negli Stati Uniti, vero fine di quella tanto agognata prigionia voluta dai piani alti colombiani.
Da quell’anno (correva il 1992) Escobar fu costretto a fuggire fino alla fine dei suoi giorni. Qui, secondo il figlio, nascono le maggiori incongruenze con la famosa serie tv Narcos (che comunque non ha mai avuto la pretesa di raccontare nel dettaglio e fedelmente alla realtà la vita del signore della droga). La famiglia, infatti, non fu mai costretta a vivere in clandestinità con il padre, anzi, lo stesso Don Pablo, in varie lettere, esprimeva il suo disappunto per una vita fatta di droga, ignoranza e violenza per i suoi figli. E le varie villette in cui il cartello di Medellin si rifugiò? Totalmente inventate, dato che il boss visse praticamente da solo in alcuni tuguri sperduti.
Se le incongruenze, specie nella seconda stagione, sono a bizzeffe (dagli esagerati scontri a fuoco, alla vita nell’hotel Tequendama, fino all’atteggiamento della nonna, che tradì Pablo in accordo con lo zio, Roberto Escobar) su una, Sebastian Marroquin (nome attuale del figlio di Escobar), resta intransigente: la sua morte. Secondo le autorità colombiane, infatti, l’uso della tecnica della triangolazione radio fornita dagli USA, aiutò una squadra di sorveglianza elettronica che scovò El Patron nel quartiere borghese Los Olivos di Medellin. Qui, 23 anni fa, tra i tetti delle case, si accese una battaglia con la già menzionata Search Bloc e, dopo un colpo alla gamba, uno alla schiena e uno (fatale) dietro l’orecchio, Pablo Escobar morì. Ma Juan Pablo (o Sebastian), come sottolineato nel libro Pablo Escobar, il padrone del male, non la pensa proprio così.
In un’intervista dei colleghi Carlo Lodolini e Marta Serafini per il Corriere della Sera, il primo genito di Escobar ha infatti sostenuto che il padre «ha sempre detto di avere 15 proiettili nella sua Sig Sauer: 14 per i suoi nemici e uno per sé stesso. Quindi una volta capito di essere spacciato ha deciso di spararsi all’orecchio destro», decisione che, come riporta sempre il figlio, gli comunicò più e più volte in tanti dialoghi solitari in tempo di “pace”, quando comunque la grandezza del suo impero lo rese consapevole dei tanti nemici che aveva già alle spalle.
Amore, rispetto e tanta contraddizione, perché Pablo Escobar era soprattutto questo, contraddizione. Contraddizione che anche lo stesso Juan Pablo conferma, ma senza perdere mai l’occasione per ricordare l’affetto del padre nei suoi confronti: «Amava alla follia la sua famiglia. Aveva costruito per noi una hacienda, Nápoles, e l’aveva riempita di animali esotici per farci divertire. Ma allo stesso tempo ordinava omicidi e uccideva, senza pensare alle conseguenze. Trafficava droga, eppure mi sconsigliava di usarla, senza vietarmela perché conosceva gli effetti del proibizionismo sul mercato. Era un uomo pieno di contraddizioni.»
Francesco Mascali
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Proprietario, editore e vice direttore di Voci di Città, nasce a Catania nel 1997. Da aprile 2019 è un giornalista pubblicista iscritto regolarmente all’albo professionale, esattamente due anni dopo consegue la laurea magistrale in Giurisprudenza, per poi iniziare la pratica forense presso l’ordine degli avvocati di Catania. Ama viaggiare, immergersi nelle serie tv e fotografare, ma sopra tutto e tutti c’è lo sport: che sia calcio, basket, MotoGP o Formula 1 non importa, il week-end è qualcosa di sacro e intoccabile. Tra uno spazio e l’altro trova anche il modo di scrivere e gestire un piccolo giornale che ha tanta voglia di crescere. La sua frase? «La vita è quella cosa che accade mentre sei impegnato a fare altri progetti»