«Buongiorno signor colonnello. Ho due notizie per lei, una buona e una cattiva. La buona è che le offro 10.000 dollari al mese perché mi tenga informato sulle operazioni della polizia di Medellìn. La cattiva è che, se lei non accetta, le faccio uccidere sua moglie, sua madre, sua figlia Manuelita, suo figlio Pedrito, i suoi zii, i suoi cugini, suo nonno e anche sua nonna. E se sua nonna è già morta, la faccio disseppellire e uccidere un’altra volta».
La serie Narcos, ideata da Chris Brancato, Carlo Bernard e Doug Miro, andata in onda su Netflix, ha ricordato a tutto il mondo il nome di Pablo Escobar (lo stesso che ha pronunciato le parole sopra citate) anche se certamente il mondo, e soprattutto la Colombia, non l’avrà dimenticato. A interpretarlo è l’attore brasiliano Wagner Moura. Pablo Emilio Escobar Gaviria, nato nella Colombia post Bolivar (un luogo dove la parola uguaglianza nemmeno esisteva) era un uomo ambizioso, forse troppo. La DEA per prenderlo ha dovuto ucciderlo con l’aiuto di un corpo speciale creato appositamente per lui, il Dio della coca. Il Cartello di Medellìn (il suo) divenne presto l’acerrimo rivale del Cartello di Cali, l’altro colosso della cocaina sudamericana. Pablo Escobar –citando Harvey Dent (alias Due Facce) ne Il Cavaliere Oscuro – è colui che ha vissuto tanto a lungo da diventare il cattivo: se da un lato c’è un eroe per le popolazioni locali, un uomo che ha dato tutto per la sua Colombia, soldi e cibo, che ha persino costruito case, scuole e chiese, da un lato vi è uno spietato boss della droga che non aveva scrupoli per nessuno, donne, uomini, bambini.
Narcos, però, non ricalca solo l’impero di Escobar, ma anche la sua vita, il suo essere uomo. Il paragone con Scarface, celeberrimo film in cui Al Pacino veste i panni di Tony Montana, boss della droga dell’America anni ’80, sorge spontaneo: la serie TV riesce a spalmare meglio la storia di Don Pablo, al contrario del suddetto film che concentra in 170 minuti tutto lo sfarzo e la lussuria che la coca dà a chi la traffica. Montana, però, diventa dipendente dalla stessa sostanza che smercia e muore nella sua villa, crivellato dai colpi dei sicari mandati da Sosa per farlo fuori; Escobar, invece, morirà sul tetto di una favela, inseguito dalla DEA e dal Bloque De Busqueda (il reparto speciale creato appositamente per dargli la caccia), senza che mai il suo naso abbia provato il brivido della coca: fumava solo marijuana in base a quanto si apprende da Narcos. A metà degli anni ’80, e stavolta non stiamo più parlando di un film, importava 420.000.000$ a settimana (22 miliardi all’anno). I soldi erano così tanti che il Signore della droga doveva spendere mensilmente tra i 1000 e i 2500$ in elastici per banconote: il denaro non era un problema, una volta, racconta il figlio Juan Pablo, nel 2009 alla rivista Don Giovanni, quando la famiglia Escobar viveva nelle montagne di Meddelìn, la sorella Manuela soffrì di ipotermia e il padre per riscaldarla bruciò circa 2 milioni di dollari in banconote.
La rivista Forbes nel 1989 lo indica come settimo uomo più ricco al mondo, Don Pablo vedrà la sua faccia raffigurata sullo stesso giornale nelle pagine dedicate ai miliardari internazionali dal 1987 al 1993. Curioso come lui stesso perdesse circa 2 miliardi all’anno a causa dei topi e delle intemperie: infatti, la quantità di denaro che possedeva era tale da costringerlo a nasconderlo in mezzo alle foreste o ai campi agricoli colombiani, talvolta in delle cascine (Escobar era solito far mettere ad un suo gregario una X su una cartina per indicare i luoghi in cui nascondeva i soldi, in breve tempo l’intera mappa fu coperta da X). Qui roditori e pioggia distruggevano letteralmente ingenti somme di denaro, ma considerando che guadagnava più di 40.000$ al minuto ciò non era un problema: «Pensa come un povero e vivrai come un povero» diceva. Tutto questo denaro arrivava solo ed esclusivamente dalla coca, un fenomeno in espansione a cui la polizia dava poco peso: si vessava maggiormente il pusher che vendeva marijuana, piuttosto che lo spacciatore di cocaina. Appare doveroso citare Il Padrino, capolavoro cinematografico di Francis Ford Coppola, ispirato all’omonimo romanzo di Mario Puzo: in una delle scene iniziali Sollozzo, gangster turco affiancato dalla famiglia Tattaglia, offre a Don Vito Corleone di entrare nel business della droga (in particolare della cocaina), descrivendolo come il futuro, ma il Padrino prontamente declina l’offerta, reputandolo un giro di affari troppo sporco che gli farebbe perdere protezione in politica.
Ed effettivamente Il Turco aveva ragione: alla fine del 1980 Pablo Escobar controllava l’80% del traffico di cocaina mondiale. Contrabbandava negli Stati Uniti d’America circa 15 tonnellate di polvere bianca, quattro americani su cinque tiravano la coca di El Patron. E se i primi tempi il trasporto avveniva tramite elicotteri e aerei privati, negli anni successivi Escobar trovò i metodi più astuti per esportare il suo prodotto: dai jeans bagnati nella cocaina liquida ai pacchi di droga paracadutati o nei campi o in mare, per essere poi presa dagli altri trafficanti con i motoscafi, o ancora in statuette della Madonna, nella resina delle barche e nelle bottiglie di Coca Cola. Eppure il boss del Cartello di Meddelìn prima di essere el jefe de la coca era un semplice ladro di lapidi, uno dei tanti che ripuliva la pietra tombale dall’incisione funebre che riportava per poi rivenderla. Lui, alla fine, dichiarava di avere soltanto una piccola azienda di taxi. Una volta disse in un processo: «Mai mi sarei aspettato di prendere 5 anni per essere passato col rosso» (nel bagagliaio aveva 5 kg di coca).
Escobar stava vivendo un sogno, ma non il suo: lui voleva entrare in politica per consacrarsi come Presidente della Colombia. Nel 1982 fu eletto al Parlamento nazionale come deputato liberale, il primo passo, però, per aspirare alla massima carica statale fu anche l’ultimo. Pablo, eccitato per il nuovo ruolo in politica, si presentò in assemblea senza la cravatta e per averla dovette pagare un ragazzo al di fuori del Parlamento. Quel giorno, però, fu lo stesso in cui saltò fuori la verità su di lui: in aula circolò la foto che lo raffigurava sorridente accanto a dei poliziotti e che svelava la sua identità di narcotrafficante. Lui aveva un rapporto particolare con la polizia: corrompeva chiunque, non importava il costo. Nel 1991 si fece rinchiudere in una prigione da lui progettata, La Catedral, qui sceglieva personalmente chi sarebbe stato incarcerato con lui, chi vi avrebbe trovato lavoro come secondino o addetto alle pulizie o ancora cuoco in mensa, poteva pure continuare a gestire il suo traffico miliardario. La prigione, inoltre, era dotata di un campo da calcio, patio e un complesso adiacente dove avrebbe lavorato la famiglia. Alla fine il suo mantra restò sempre Plata o Plomo (soldi o piombo, cioè o ci si faceva corrompere dai soldi o si finiva morti): per suo ordine o per sua mano (infatti era solito eseguire le sue vittime anche personalmente) furono circa 4000, tra essi si possono annoverare circa 200 giudici e 1000 poliziotti.
Uccise persino tre candidati colombiani alla presidenza, tutti nello stesso periodo di elezioni. Il disastro aereo Avianca 203 fu opera sua: il 27 novembre 1989 l’aeromobile diretto da Bogotà a Calì scoppiò 5 minuti dopo il decollo a causa di una bomba a bordo, 107 furono i morti sul colpo e tre quelli uccisi dai detriti, tuttavia all’appello mancava un morto, il vero obiettivo di quell’attentato, Cesar Gaviria Truijillo, candidato liberale che concorreva per le elezioni presidenziale nel 1990 (non prese quell’aereo e si salvò, fu un mero caso). Non risparmiò neppure i giornalisti, eppure nel suo paese natale lo vedevano come un santo: non si limitò soltanto a distribuire mazzette ai colombiani più bisognosi ma costruì pure scuole, edifici di utilità pubblica e decine di campi di calcio. El Patron amava lo sport e persino i motori. Il suo capolavoro resta però la Hacienda Nàpoles, sua personalissima villa: quello che oggi è uno dei parchi tematici più grandi di tutto il Sud America, un tempo, era uno zoo contenente le più belle specie di animali al mondo per cui spese moltissimi soldi, uno stadio per la corrida, 12 laghi, uno svariato numero di piscine, piste di atterraggio per elicotteri (utili per il narcotraffico in Perù) e naturalmente la sua sfarzosa casa. Il terreno, vista l’estensione di 3000 ettari, era anche un campo di addestramento militari dove Escobar addestrava i suoi miliziani.
Detto Robin Hood paisa, fece costruire il Barrio Escobar, un quartiere creato interamente di sua volontà: nessun affitto, nessuna pressione sociale, vi era pure una chiesa e all’entrata una scritta simbolica Aqui se respira paz con a lato un murales del Patron. Tuttavia pure alcuni cittadini che gli garantivano omertà e popolarità, nonché rispetto, gli voltarono le spalle quando divenne troppo spietato. E come ogni gangster che si rispetti Escobar aveva un rapporto profondissimo con la madre, non la contraddisse mai, neppure quando lei fece scoprire un suo nascondiglio. Qui sorge naturale, invece, il paragone con “Il Padrino – Parte II” quando Michael Corleone, nuovo Padrino, decide di uccidere il fratello traditore, Fredo Corleone, solo ed esclusivamente alla morte della madre. Emblematico fu invece nella vita di Don Pablo un episodio risalente alla sua infanzia: da piccolo, tornò a casa nervoso a causa degli scherni ricevuti da un bambino per le sue scarpe rotte; la madre quindi ne rubò un paio per farlo tornare a scuola, fiero del suo nuovo paio di calzature.
Come diceva lui «Tutto ciò che è pericoloso diventa soldi», e visto il suo patrimonio, il pericolo non poteva che essere proporzionato; infatti oltre il Cartello di Calì e la DEA, iniziò a remare contro il suo operato un gruppo di perseguitati e vittime del suo giogo: si facevano chiamare Los Pepes. Iniziarono così a uccidere suoi familiari e persone a lui vicine, ma ciò non fu determinante. Infatti a segnare la morte di El Patron fu la tecnologia della triangolazione radio, di origine statunitense, che permise di scovarne il nascondiglio e andarlo a prendere direttamente nella sua tana: dopo un inseguimento sul tetto fu ucciso da un team formato dalla DEA e dal Bloque de Busqueda (i quali collaborarono con Los Pepes), lo colpirono in una gamba, nella schiena e fatalmente dietro un orecchio. Ad oggi la sua lapida viene lucidata quotidianamente sul Monte Sacro di Medellìn da Don Federico, e anche questo è raccontato da Alba Marina Escobar, sorella del boss che promise di pagare il curato affinché si occupasse della stessa lapide che, probabilmente da piccolo, Pablo Escobar avrebbe rubato. La sua citazione forse più emblematica è «A volte sono Dio, se dico che un uomo muore, muore il giorno stesso»: il 2 dicembre 1993, esattamente 44 anni e 1 giorno dopo la sua nascita, Dio morì.
Francesco Raguni
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