Lo scorso autunno gli A Toys Orchestra sono tornati con il loro nuovo album: Butterfly Effect. A differenza dei precedenti “autoprodotti” dalla band, quest’ultimo ha la particolarità di essere stato realizzato in Germania sotto la supervisione del celebre produttore Jeremy Glover, con un nuovo sound che arricchisce ulteriormente il repertorio del gruppo di Agropoli. All’uscita del disco si è poi svolto il solito tour che li ha portati in giro per l’Italia: quando sono arrivati a Catania, abbiamo fatto una chiacchierata col frontman del gruppo, Enzo Moretto.
Enzo, siete tornati a Catania a distanza di un anno con un nuovo album, Butterfly Effect. Raccontaci un po’ com’è stato l’anno degli A Toys Orchestra e da cosa è nato questo nuovo lavoro.
Enzo: «Una volta terminato il precedente tour di Midnight Revolution, mi sono precipitato a cominciare a scrivere delle nuove bozze. Per cui, questo nasce un po’ come nascono tutti i dischi: si creano delle bozze che per la maggiore realizzo io a casa in fase embrionale, solo voce e pianoforte. Poi cerco di sviluppare un’idea e ci riuniamo in sala prove. La differenza più marcata di questo disco sta nell’intenzione di distaccarci da strade percorse in precedenza: abbiamo quindi invertito un po’ i piani sonori, sperimentato soluzioni differenti. Inoltre, si è unito al gruppo Julian Barret, cosa che ci ha permesso di utilizzare maggiormente sintetizzatori e tastiere. Quella di “calcare la mano” sulle tastiere era un po’ l’idea che avevamo sin dall’inizio, prima ancora di registrare. Dato che fino a quel momento le tastiere e i sintetizzatori erano stati usati solo come arrangiamento, abbiamo pensato a ciò che sarebbe potuto accadere se invece fossero diventate il fulcro portante della canzone. Tentando, ne è venuto fuori un gran bel risultato, che non ha svilito le composizioni e che, anzi, ha messo in risalto quel tipo di pathos che a noi piace conferire alle canzoni. È stato quindi un anno fatto di sperimentazioni, di prove, di ricerca».
Avete avuto l’opportunità di registrare al Vox-Ton Studio di Berlino: com’è stato cimentarsi in questa esperienza?
E.: «Quando abbiamo attuato determinate soluzioni musicali, abbiamo capito che il disco doveva avere un suono ben definito e che non doveva essere autoprodotto come la maggior parte degli altri dischi. Avevamo in mente un po’ di persone con cui ci sarebbe davvero piaciuto lavorare e quella di Jeremy Glover è stata la scelta più immediata, perché subito dopo aver assistito ai provini ci ha fatto percepire il suo coinvolgimento e la sua vera volontà di lavorare al disco: per noi questa era la cosa veramente fondamentale. Andare poi a Berlino, in uno studio così importante, con un produttore che noi adoravamo e che durante la sua carriera ha realizzato dischi con artisti tra i nostri preferiti, come Liars, Crystal Castles e Blonde Redhead, è stata un’esperienza indescrivibile. Questo tipo di lavoro ha dato maggiore importanza a questo album e siamo un po’ usciti da quell’aura protettiva del fare le cose in casa e in Italia. Volevamo una certa tensione positiva di fondo, stare sul pezzo, e stando concentrati e andando in una città come Berlino, con la sua storia, con le sue vibrazioni culturali, questo si è percepito. Nonostante fossimo spesso tra le quattro mura di uno studio, la capitale tedesca ci ha investito della sua energia ed è tutta confluita nel disco».
Quindi alla fine quella di Jeremy è stata una scelta che ha influenzato il sound finale dell’album, no?
E.: «Sì, è inevitabile. Quando scegli di lavorare con un produttore, stai decidendo di affidare parte delle scelte sonore a lui – ed è per questo che bisogna quanto prima instaurare un rapporto di fiducia, affinché il produttore diventi poi l’elemento aggiunto della band. Jeremy ha fatto un’operazione che a me è piaciuta moltissimo: noi avevamo improntato un po’ il tutto più sul sintetico, lui è riuscito a “sporcare” tanto col suo modo di lavorare, a dare un taglio molto più sanguigno, grezzo; ha tolto quella patina tipica della musica danzereccia, rendendo tutto molto più intenso e rock. Questo è stato fondamentale per rendere vivo e interessante il disco».
Dati alla mano Butterfly Effect è stato anche un notevole successo commerciale: vi aspettavate questo successo e puntavate ad espandere il vostro sound a un pubblico maggiore, o si è trattato di una sorpresa improvvisa?
E.: «Puntare a espandere il pubblico è un pensiero di fondo. La motivazione reale per cui si fa musica è cercare di arrivare a più orecchie e cuori possibili, per cui è ovvio che ciò era nelle nostre idee. Certo, quando stai lavorando a un disco è un po’ come giocare un terno al lotto: non sai mai come andrà a finire. Perciò magari le aspettative non erano così chiare, erano più che altro delle speranze, sebbene “speranza” sia una parola che cerco sempre di rifuggire, perché di fondo è una trappola: il concetto di speranza presuppone un affidamento al fato, mentre io tento di creare il mio futuro da me. Per cui, abbiamo cercato di costruire questo scalino in più e farlo ha consentito la nascita certamente di alcune aspettative. Poi è meraviglioso vedere che esse si concretizzano con il supporto del pubblico, con un tour e così via. Siamo solo felici di poter raccogliere i frutti dopo aver lavorato sodo».
Parlando invece dei vostri concerti, una delle cose più belle e particolari è questo continuo via vai sul palco tramite cui vi scambiate gli strumenti. Com’è nata questa usanza?
E.: «È un po’ strano. Diciamo che all’inizio abbiamo cercato di inserire ogni sorta di strumento, proprio per la nostra voglia di sperimentare. Gli A Toys Orchestra non fanno sperimentazione fine a sé stessa: non siamo un gruppo di musica d’avanguardia, però cerchiamo di testare varie soluzioni sonore. Più che altro riflettiamo su quali strumenti usare e ognuno di noi si cimenta nell’utilizzo di tutti quelli scelti. Ad esempio, a me non piace definirmi chitarrista, pianista o cantante; preferisco definirmi come uno che scrive canzoni. L’utilizzo dello strumento è relativo, varia in base a ciò che devo fare al momento. È una cosa che nasce prima di tutto per un motivo pratico, solo successivamente è diventata anche un elemento scenico».
Per concludere, com’è stato il 2014 musicale di Enzo Moretto? C’è stato qualche artista o album che hai apprezzato maggiormente, o che consiglieresti ai lettori?
E.: «Parto dal presupposto che, quando scriviamo un nuovo disco, io non ascolto molta musica, perché è già una periodo pesante di per sé. Però ho fatto alcune scoperte niente male: una è il disco di Soon, un artista inglese-austriaco il cui genere è una sorta di soul elettronico, molto bello; e poi l’album di Trentemøller, che non so bene come definire. È un DJ danese che ha trasformato tutto in una band, facendo un disco davvero incredibile. Entrambi sono stati artisti capaci di darmi tanto nel 2014».
Raffaele Auteri
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