SIRACUSA – Ripudiata da Giasone, cui aveva consentito la conquista del vello d’oro grazie alle sue arti magiche e ai suoi crimini, Medea medita un’atroce vendetta ai danni dell’eroe che l’ha abbandonata per contrarre nuove nozze con Creùsa, figlia di Creonte, re di Corinto. Dopo aver eliminato con la magia sia la rivale sia il re, Medea mette in atto l’intento di punire il traditore Giasone uccidendo i figli avuti da lui. Al padre annichilito dal dolore, l’eroina, fuggendo su un carro alato, lascia l’amara consapevolezza che non vi sono Dei negli alti spazi del cielo, ove al loro posto si colloca l’entità infera della madre che toglie la vita alla sua prole. Nel riscrivere questo mito atroce e molto noto, Seneca si misurò certamente con la tradizione teatrale latina, al giorno d’oggi perduta, all’interno della quale doveva occupare un posto di rilievo la Medea di Ovidio. Rispetto al celebre modello euripideo, le innovazioni sono di notevole rilevanza: sin dall’inizio dell’azione la protagonista è preda di un furor incoercibile che la spinge alla sovversione di ogni ordine, fisico ed etico; l’antagonista Giasone è spinto dalla pietas per i figli a ripudiare la terribile compagna, ed è reso debole dalla consapevolezza delle proprie colpe, la più grave delle quali è l’aver sfidato il mare con la prima nave violando le leggi della natura per acquisire il vello d’oro, simbolo e garanzia del regnum; nel compiere il misfatto estremo, Medea si pone in gara con i delitti realizzati da Virgo e postula l’esigenza che il suo nemico sia al contempo vittima e spectator, sì da confermare con il proprio strazio l’esito felice della performance.
Una donna tradita e una madre assassina è la protagonista indiscussa dell’ultima tragedia della Trilogia del mare. Una Medea inedita quella di Seneca e una novità per il pubblico del Teatro Greco di Siracusa, che per la prima volta in assoluto è spettatore di un’opera latina. Rispetto al celebre modello di Euripide, le innovazioni sono notevoli: la maga, già nel prologo è preda dell’ira e di una follia irrefrenabile che la spinge a ribaltare ogni ordine; Giasone, l’antagonista, è reso debole dalla consapevolezza delle sue colpe ed è spinto dall’amore per i figli a ripudiare la terribile compagna; Medea decide che il suo amante-nemico sia allo stesso tempo vittima e spettatore del castigo inflittogli. L’eroina esercita un dominio pieno e incontrastato sull’intera azione drammatica grazie all’energia creativa che la caratterizza.
Foto di Alessandra Munafò
Il traduttore Giusto Picone, per rispettare la complessità della parola di Seneca e la sua forza comunicativa nei confronti del pubblico, decide di adottare un registro scevro dalle tentazioni espressionistiche. Medea, infatti, è un dramma rigorosamente intellettuale che si gioca non sulla scena ma nella mente dei protagonisti. Il regista Paolo Magelli insiste su un modernismo venato da eleganze novecentesche, servendosi di un impianto scenico monocromatico, una distesa di sale che ricopre l’orchestra, come simbolo del mare prosciugato nel quale la nave di Argo si è arenata e anche metafora di una terra in cui si compiono i destini di Medea, Giasone, Creonte e Creusa. Le musiche, composte da Arturo Annecchino, nonostante uno sfasamento cronologico di un paio di millenni, mantengono una coerenza con la metafora voluta da Seneca. «Medea non è una maga cattiva, è una donna coraggiosa, una novella Ulisse che ha aperto le vie del mare. È anarchica» dihiara Magelli. Medea è vittima dell’aspetto razionale e irrazionale. E l’interpretazione magistrale di Valentina Banci riesce perfettamente a rendere questa dicotomia. «Medea» afferma l’attrice «è una donna che ha una mente divisa in due, come ci siamo detti noi del cast, tra il sole e la luna, finché definitivamente cede alla pazzia che sappiamo poi verso quale tragedia la spinge. Ma detto questo, secondo la lettura di Magelli, è una donna della quale si riesce a comprendere la sua pazzia. Certo, c’è l’atto estremo dell’assassinio dei figli e già assassina lo è stata, però arriva a questo atto seguendo un percorso di dolore e di perdita di coscienza che in qualche modo è una forma di schizofrenia. Non si può giustificare l’uccisione dei propri figli, però si può capire Medea se vista nell’ottica di Magelli. E’ una Madre-terra che non vuole cedere al potere rappresentato dal mondo maschile. C’è in lei una forza creatrice e distruttrice, una forza di non allineamento che la porterà al gesto estremo ma che è anche rigeneratrice. Nello spettacolo di Magelli e nella tragedia di Seneca sappiamo che i figli vengono uccisi sulla scena, a differenza che in Euripide, e questa morte si accomuna alla nascita, alla rinascita»
Il regista, per chiarire drammaturgicamente la posizione di Giasone, ha deciso di inserire nell’opera di Seneca pochi versi di Euripide tenendo però a sottolineare: «Non ho trasferito un’idea di Euripide ma sono ben rimasto dentro la visione culturale di Seneca, che è il dato che conta. L’approccio italiano a Medea è molto moralistico e anche mediato da un piano ampiamente filologico, che va bene per iniziare ma di cui poi occorre liberarsi. Il problema è di trasporre sulla scena il testo senza scalfirne il senso ma potenziandone il valore».
CAST
Traduzione Giusto Picone
Adattamento teatrale Paolo Magelli
Regia Paolo Magelli
Scena e costumi Ezio Toffolutti
Musiche Arturo Annecchino
PERSONAGGI E INTERPRETI: (o.a.)
Medea Valentina Banci
Giàsone Filippo Dini
Creonte Daniele Griggio
Nutrice Francesca Benedetti
Messaggero Diego Florio
Corifee Elisabetta Arosio, Simonetta Cartia, Giulia Diomede, Lucia Fossi,
Clara Galante, Ilaria Genatiempo, Carmelinda Gentile,
Viola Graziosi, Doriana La Fauci
Corifei Enzo Curcurù, Lorenzo Falletti, Diego Florio,
Sergio Mancinelli, Francesco Mirabella
Bambini Francesco Bertrand, Gabriele Briante
Alessandra Munafò
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