Il regista George Miller torna al cinema dopo trent’anni con Max Rockatansky (detto Mad Max). Miller, di 70 anni, riprende la saga con Mad Max: Fury Road, accolto il 14 maggio con un’ovazione alla 68ª edizione del Festival di Cannes. Nel 1979 era uscito il primo film della trilogia, Interceptor. La pellicola, che nonostante il basso costo di produzione riscosse un enorme successo mondiale, ha poi avuto due sequel: Interceptor – Il guerriero della strada (1981) e Mad Max – Oltre la sfera del tuono (1985). Entrambi furono molto apprezzati dalla critica e rimangono oggi tra i migliori esempi degli action movie seriali degli anni Ottanta. I tre film hanno come protagonista Mel Gibson nei panni di Rockatansky; nel nuovo episodio, invece, troviamo l’attore britannico Tom Hardy.
Considerato uno dei film più attesi del 2015, questa quarta pellicola della serie è un grande lavoro anzitutto dal punto di vista produttivo. Dopo vent’anni di tira e molla, infatti, la Warner Bros Pictures ha deciso di investire per il film la somma di ben 150 milioni di dollari. La fiducia della produzione è stata ben riposta, perché quella di Miller è un’ode all’action che si fa opera d’autore. Il suo tentativo di coinvolgere direttamente il pubblico rende quest’ultimo molto partecipe e, nel contempo, si evince che il regista non vuole legare il lavoro a un monitor, a una videocamera o a un sistema di fotocellule, perché sarebbe riduttivo. Per questo, punta tutto sulla performance. Il modello performativo è proprio la prima delle analogie del film rispetto ai tre precedenti; altra analogia importante è, poi, la relazione con il contesto ambientale, ossia con il disastroso futuro distopico (generato da una serie di calamità catastrofiche su scala globale che hanno causato il crollo della società) in cui vive Max, ex-poliziotto solitario che ha perduto la famiglia durante i primi giorni del collasso comunitario. La società è ora resettata e benzina e cromature assumono una valenza fondamentale: ecco uno dei temi ripresi nella pellicola, con il coraggioso accostamento della mistica da kamikaze del terrorismo contemporaneo a un’estetica neo-ariana che inneggia al Valhalla, in una crasi impossibile tra due opposte filosofie di un’ideale crociata. Scopo di Miller sembra riprendersi ciò che gli appartiene e rilanciarlo nel linguaggio della contemporaneità, avvalendosi del 3D.
Nella pellicola tutto è calcolato con estrema precisione, a partire dal ritmo: il blockbuster è fino al midollo, con una struttura piegata alle esigenze commerciali e che concentra l’attenzione sul rapporto informazione-azione, informazione-nuova azione. La narrazione è unica, non prevede repliche, scorre fluida sullo schermo con i propri nessi logici, mai ripetitivi. Indugiare su dettagli della trama è poco produttivo per un film del genere: il più delle volte, problematici al cinema sono i sequel/prequel/reboot, poiché si tende a favorire la comprensione del pubblico, ma che altre volte possono costituire per lo più un equivoco, rappresentato dalla dipendenza dell’opera con una precedente. Il film di Miller non cade in tale errore: infatti, il regista ha scelto una narrazione non convenzionale per raccontare una storia eccezionale, mettendo in evidenza i sentimenti e la componente sociale e umana, oltre a presentare ua narrazione action. Il particolare più evidente della sua elaborazione cinematografica è la sceneggiatura: un’eccellenza in fase di stesura che ha insistito non poco pur di conferire allo script l’importanza fondamentale dei ruoli femminili: la storia racconta un tentativo di ricostruzione della civiltà il quale, come tutti gli altri, non può che essere propiziato dalla donna, incarnata simbolicamente dalla protagonista Furiosa (Charlize Theron). Il leitmotiv del film è, quindi, quello di ritrovare un briciolo di umanità in un contesto dove oramai determinati valori non sopravvivono neanche nel ricordo.
Mad Max: Fury Road è (e deve restare) una scheggia insurrezionale legata al proprio momento, al proprio contesto: deve vivere nutrendosi della conflittualità insita in scene spettacolari, ma innanzitutto della conflittualità che è nella radice del suo stesso linguaggio. Il film, infatti, trova la propria forma se trova la sua sostanza. Così, intanto raggiunge il proprio tempo “esterno” conquistando internamente il proprio codice linguistico e le proprie scelte stilistiche; dopodiché, risponde “naturalmente” a questo particolare ritmo interno, che si configura come il “respiro” stesso della storia.
Enrico Riccardo Montone
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