Mosca, 1952. Leo Demidov (Tom Hardy) è un membro della polizia segreta sovietica dell’MGB, che perde il proprio status quando rifiuta di denunciare come traditrice la moglie Raisa (Noomi Rapace). Esiliati da Mosca e inviati in un gelido avamposto di provincia presso i monti Urali, i due coniugi aiutano il Generale Michail Nesterov (Gary Oldman) ad indagare su una serie di delitti di bambini che avvengono lungo le ferrovie russe e che li porterà a scontrarsi con il folle Vasilij, rivale di Leo all’interno della polizia segreta.
Il nuovo film di Daniel Espinosa Child 44 – Il bambino 44 è l’adattamento cinematografico del romanzo Bambino 44 (Child 44), scritto nel 2008 da Tom Rob Smith. I suoi libri hanno come ambientazione l’Unione Sovietica degli anni ’50. Una delle peculiarità del film è il fatto di essere impeccabile dal punto di vista visivo, elegante ma anche vivido, al punto da sentire l’odore della polvere sui mobili, l’umido e i sospiri. La pellicola ha una delicatezza che non si direbbe possibile sulla carta, prolisso com’è e con attori dal peso specifico enorme. I piccoli indizi, quasi fossero distrazioni, sono ciò che scalda il film di Espinosa da cima a fondo: il dettaglio che fa la sua grandezza. La direzione punta il dito sul carattere metalinguistico dell’operazione hitchcockiana. Per il regista non è altro che un saggio su ciò che è lecito e ciò che non è lecito riprendere. Ci muoviamo, quindi, su un terreno particolarmente accidentato, quasi che l’oggetto della disputa sia la macchina da presa, la quale, se utilizzata scriteriatamente, può trasformarsi in strumento di violazione della dignità del soggetto ripreso o di manipolazione della coscienza dello spettatore. In tre parole: potere, controllo, dominio.
L’essenza del film consiste nella sua capacità di filtrare la presenza della storia attraverso i destini individuali, in una Russia dalle ombre e fantasmi del regime staliniano oramai sepolto. I movimenti della macchina da presa esprimono gli stati d’animo dei personaggi e cercano il contatto con gli oggetti, con l’ambiente, con il paesaggio, per focalizzare meglio lo sguardo sui caratteri e sugli attimi rivelatori. Attento al racconto tratto dal libro di Smith, il film di Espinosa è di riflessione e di ascolto. Mette in scena conflitti umani dentro conflitti storici e di conseguenza un’avvertita esigenza estetica si coniuga, sempre e felicemente, con una pervicace tensione etica, in una piena corrispondenza tra pensiero e forma, che rifiuta i vani lenocini della retorica del cinema contemporaneo. Una storia intrigante con un finale forse poco inatteso, ma non per questo carente di emozione e suspense. Anzi, la pellicola dimostra essere di grande qualità e di rara eleganza con una scena finale giustamente magniloquente, ma non esagerata. A voi gli occhi per vederlo al cinema.
Enrico Riccardo Montone
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