In occasione del suo tour, partito da Bologna lo scorso 12 Aprile al Teatro San Leonardo, Voci di Città ha intervistato il cantautore Maldestro, per scoprire qualcosa di più di un ragazzo con tanto da raccontare e tanti sogni ancora da realizzare.
BOLOGNA – Antonio Prestieri, in arte Maldestro, è un cantautore napoletano. Ha partecipato al Festival di Sanremo classificandosi al secondo posto nella categoria “Nuove Proposte” con il brano Canzone per Federica. Il premio della critica Mia Martini è solamente l’ultimo della lista, tra quelli che si è aggiudicato nel corso della sua carriera. Maldestro è un cantastorie del nostro presente: artista completo, dal teatro alla musica, racconta nelle sue opere, con un tono di voce raffinato e graffiato, l’amore, la rabbia, la speranza, il disagio ed è capace di trattare con una sapiente ironia anche temi delicati come quello della lotta contro la mafia (suo padre, Tommaso Prestieri, è un noto camorrista).
Come mai hai scelto “Maldestro” come nome d’arte?
«Perché lo sono realmente, non è per fare il personaggio. Realmente inciampo, e se intorno a un tavolo si rompe qualcosa, è sempre colpa mia, quindi è veramente così. Quando ho scelto il nome per il mio progetto musicale, non ce n’era uno che mi potesse rappresentare meglio di questo. Poi, in tempi non sospetti i miei amici mi chiamavano già Maldestro, quindi era perfetto.»
Chi è Federica, di cui parli nel brano Canzone per Federica?
«Federica è una mia carissima amica a cui voglio molto bene. Essa, nonostante le avversità della vita, è sempre riuscita a regalare un sorriso a tutti ed è anche una persona che sorride sempre: se il mondo stesse per crollare, lei lo affronterebbe sorridendo. Ti dà una forza pazzesca e quindi per me è stato un onore poterla immortalare con una canzone.»
Il tuo nuovo album, uscito a fine febbraio, si intitola I muri di Berlino. Come mai hai scelto questo titolo? Quali sono i muri a cui fai riferimento?
«Attraverso le dieci tracce contenute nel disco, ho cercato di spiegare il perché ho deciso di dare quel titolo. I muri per me sono quelli che abbiamo dentro, quelli fatti di sentimenti quotidiani, semplici: dalle noie, alle convivenze, alle gioie, i dolori, le speranze. E attraverso le dieci tracce ho cercato di raccontare quel tipo di muro. “I muri di Berlino” per due motivi: uno è questo e l’altro per la città in sé. Berlino mi è rimasta dentro: c’è un movimento culturale giovanile pazzesco, dove i ragazzi possono realmente costruirsi un futuro. E la canzone “Arrivederci Allora” racconta proprio di questa mia esperienza nella città tedesca.»
Nelle tue canzoni hai sempre trattato temi vicini al “popolo”, spesso difficili da affrontare e attraverso cui è possibile definirti un poeta del nostro presente. Quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente ispirato nel corso della tua carriera?
«Chi, insomma, mi ha rovinato la vita, si fa per dire, perché è grazie a lui se faccio questo mestiere, è Ivano Fossati. Da piccolo lo ascoltavo e pensavo sempre che da grande avrei voluto essere come lui. Poi ho incontrato Gaber, il pioniere italiano del “teatro-canzone”. Ho fatto sedici anni di teatro ed è stato lui a mettere insieme le mie due passioni: la recitazione e la musica. Vorrei continuare per questa strada, riuscendo a fare anche solo il 5% di quello in cui è riuscito Gaber. Poi De Gregori, Dè Andrè. Ma anche Leonard Cohen, Bob Dylan, i grandi, insomma. Tra gli artisti contemporanei, penso subito a persone come Niccolò Fabi, Max Gazzè, Daniele Silvestri, Samuele Bersani…»
Sei nato a Napoli, nel quartiere di Scampia: quanto ha condizionato la tua attività artistica essere nato in un territorio così “tristemente” conosciuto?
«Io credo che il posto da dove vieni influisca sempre. Puoi nascere a Scampia o a Beverly Hills e quel luogo te lo porti sempre addosso. Ti forma nei rapporti interpersonali, nel modo di pensare… e ovviamente anche nella composizione, nonostante dicano che io sia il cantante napoletano meno napoletano che ci sia in circolazione. Non bisogna però correre il rischio di rimanere incastrati solo nelle tradizioni, perché il mondo è immenso e bisogna incontrare anche altre culture, sposarle e, perché no, amarle più delle tue.»
Nelle tue canzoni hai sempre parlato senza paura del luogo da cui provieni, raccontandone le speranze e i lati positivi. Cosa ne pensi, invece, del lavoro di altri personaggi dello spettacolo, come ad esempio Roberto Saviano?
«Credo che persone come Saviano abbiano ragione di esistere ed è giusto che raccontino quel tipo di spaccato, che esiste e sarebbe da idioti dire il contrario. Ma è solo il 10%, perché il 90% di Scampia, come Napoli, è fatto di brava gente che al mattino si sveglia e si spacca la schiena per cercare di costruirsi un futuro con 800 euro al mese. Insomma, quello che mi stupisce sempre è che da Roma in su vedono Scampia come un posto terribile, dove non ci puoi entrare e pensano ci sia la guerra. Non è per niente vero: a Scampia ci sono le aiuole, i parchi, le persone piangono pure per noia, per malinconia, non solo per le cose brutte. È giusto che ci sia Saviano, così com’è giusto che ci siano le serie come Gomorra che raccontano quel tipo di mondo, anche a volte esagerando. Ma quello è spettacolo, è show e lo teniamo così. Anche a New York succede questo: ci sono gli Scorsese e i Coppola che raccontano di gangster, di mafia, ma a New York c’è anche Woody Allen, il quale ti racconta la parte intima, introversa di quella città. Quello che manca in Italia e a Napoli, è qualcuno che ne racconti l’altra facciata.»
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
«Dopo questo tour, che finirà a Settembre, facendomi sentire già stanco» – ironizza -, «sicuramente ho già in mente di fare il terzo disco, ma non abbandonerò il teatro: anzi, è sempre nei miei pensieri. Non penso solo di portare in scena il teatro canzone, ma anche di ritornare al teatro fatto di sola prosa, come autore, come attore. Si, ho molti progetti da realizzare e spero di riuscire a farne almeno la metà.»
Sara Forni
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