Regno Unito, 1971: Gary Hook (Jack O’Connell), un giovane soldato britannico, viene accidentalmente abbandonato dalla sua unità durante una rivolta nelle strade di Belfast. Dopo essere stato picchiato dalla folla, viene aiutato da alcuni cittadini, mentre i killer della Provisional IRA (Irish Republican Army) e della Military Reaction Force dell’esercito britannico gli danno la caccia. Diversi Stati europei, in questo periodo, sono scossi da una grave crisi economica e sociale, che prende forme varie ma che è accomunata da un aspetto principale: il diffondersi in grande stile del terrorismo politico; questi sono i cosiddetti «anni di piombo», con riferimento sia al materiale di cui sono fatte le pallottole usate dai vari commando terroristi qua e là in Europa, sia in riferimento al titolo omonimo del film Anni di piombo di Margarethe von Trotta uscito nel 1981 che trattava l’esperienza storica analoga e contemporanea vissuta dalla Germania Ovest.
Il cinema anglosassone non è nuovo nella trattazione di queste tematiche che rappresentano il lungo conflitto che caratterizzò l’Irlanda del Nord tenendo l’intero mondo in tensione. Jim Sheridan con Nel nome del padre (1993) interpretato da Daniel Day-Lewis e Ken Loach con Il vento che accarezza l’erba (2006) hanno affrontato la spinosa questione. In questa cornice di referenza, invece, siamo di fronte all’esordio del regista Yann Demange che è conosciuto ai più per aver già diretto due puntate di successo Top Boy (2011). In primo luogo si può affermare che il regista non è interessato a indagare le ragioni storiche né giocare al “riformatore sociale” e neanche a decretare chi ha ragione e chi torto. Si potrebbe dire che l’impegno civile, per questo regista esordiente, consiste nello stimolare un ruolo attivo da parte dello spettatore, che deve immaginare e congetturare, partecipare alla strategia interpretativa del racconto, negoziarne i significati. Lo spettatore deve faticare per fare la sua parte. Non subisce l’irruzione delle emozioni, non vive la fascinazione immediata e improvvisa delle immagini. Le inquadrature sono lineari e statiche, descrittive, equilibrate e composte per lasciare spazio allo sguardo di cercare la propria prospettiva. Anche il montaggio procede in maniera lineare e metodica, senza sobbalzi e senza ellissi, senza sorprese e con una certa “abbondanza” della sequenza. Il respiro dello spettatore è piano e si prende tutti i suoi tempi, per articolare pensieri e riflessioni, per cercare la propria strada, la propria via nel sentiero ramificato della narrazione.
’71 si caratterizza per essere un susseguirsi di fragilità, speranze, possibilità di costruzione di un futuro migliore che vengono infrante dalle formazioni terroristiche, che non riescono a raggiungere gli obiettivi che perseguono; nondimeno, in una certa misura, le loro azioni fanno rivivere all’Europa degli anni Settanta le paure e le angosce che generazioni precedenti hanno vissuto su scala moto più ampia. Persistenze e novità si inseguono e si intrecciano in questa narrazione, all’interno di uno scenario che il terrorismo rende sempre più instabile: osservare i caratteri delle formazioni culturali che dominano i gruppi terroristici, esplorarne le stratificazioni, è ciò che questo film si propone di fare. In un’altra misura, si preoccupa anche di mettere in evidenza il significato che i soggetti attribuiscono al loro agire e dei modi attraverso i quali tale significato viene identificato o costruito ma anche il modo in cui le persone si riuniscono o si distinguono all’interno della medesima società.
Enrico Riccardo Montone
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