Una raffica di avvisi di garanzia per falso ideologico nei bilanci del Comune di Catania degli anni 2009, 2010 e 2011: sono venti gli indagati, tra amministratori e dirigenti pro tempore; i provvedimenti – notificati dai finanzieri del comando provinciale – sono stati emessi dal procuratore aggiunto Michelangelo Patanè e dal sostituto Alessia Minico; e l’ipotesi di reato contestata è di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici.
Nella rete delle indagini spiccano il sindaco di quegli anni, Raffaele Stancanelli, gli assessori pro tempore al Bilancio Roberto Bonaccorsi e Gaetano Riva, e l’allora responsabile della Direzione Ragioneria generale del Comune,Giorgio Santonocito. In quegli anni, gli altri indagati hanno tutti svolto le funzioni di dirigenti del Comune etneo. Si tratta, in particolare, di Pietro Belfiore, Biagio Lipera, Marco Petino, Orazio Palmeri, Valerio Ferlito, Annamaria Li Destri, Alessandro Mangani, Nunzio Pastura, Maria Luisa Areddia, Gabriella Sardella, Roberto Politano, Augusta Manuele, Paolo Italia, Giovanni Tomasello, Corrado Persico e Salvatore Costanzo.
Nel corso delle indagini, i militari del Nucleo di polizia tributaria di Catania hanno proceduto all’acquisizione di una ingente mole di documentazione presso vari uffici del Comune, nonché presso le sedi delle principali aziende partecipate. L’esame svolto ha consentito di evidenziare significative anomalie nella formazione e nell’approvazione dei documenti contabili, con specifico riferimento all’appostamento in bilancio di ingenti quote di passati “residui attivi” di dubbia esigibilità, per un importo complessivo di oltre 270 milioni di euro; debiti fuori bilancio per oltre 78 milioni di euro, la cui certezza in ordine alla manifestazione finanziaria avrebbe dovuto indurre l’amministrazione comunale all’individuazione delle necessarie coperture; disallineamenti contabili emergenti tra i valori iscritti in bilancio dall’ente locale controllante (Comune di Catania) e quelli rilevati nei bilanci delle società partecipate per circa 34 milioni di euro; classificazione di somme pari a circa 20 milioni di euro nell’ambito di voci di bilancio dalle quali non emergeva la loro natura di passività. La corruzione e il falso in bilancio sembrano essere un problema cronico della società italiana fin da sempre. Già conosciute e già divenute oggetto di pubblico dibattito presso i romani, infatti, queste due componenti non hanno mai smesso di scandire il susseguirsi delle vicende storiche del nostro Paese. Molti hanno convenuto che l’Italia non sia ancora una democrazia forte e compiuta, poiché le procedure della pubblica amministrazione sono farraginose, il modo di organizzare gli uffici risulta eccessivamente burocratico e superato e il lavoro ancora si basa sulla correttezza formale degli adempimenti anziché sui risultati. Probabilmente è l’interpretazione di norme, leggi e regolamenti intricatissimi a lasciare ampia e inevitabile discrezionalità al singolo funzionario, creando spiragli favorevoli per l’infiltramento di corruzione e/o di magagne a scopo personale.
Alla base di tale fenomeno, tuttavia, ci sono anche delle ragioni culturali: in vaste aree della nazione, forse a causa dello storico susseguirsi di dominazioni straniere, lo Stato è visto come un ente estraneo, come un antagonista delle singole comunità. Allo stesso modo, l’arricchimento è considerato dagli italiani come il principale segno di distinzione e di pubblica superiorità, cosicché l’aristocrazia del denaro diviene l’unica gerarchia riconosciuta socialmente (e non solo). Più che con la competenza, il potere stesso viene acquistato tramite denaro. E il tornaconto personale, come l’appartenenza a una famiglia, a un clan o a una corporazione professionale, nel Belpaese hanno sempre la meglio sul rispetto per il bene comune e per l’interesse collettivo. La conseguenza è che valori di civismo molto diffusi in democrazie ben più longeve ed efficaci della nostra trovano da noi un’adesione soltanto formale, di facciata. Così, la vita pubblica italiana scorre da sempre sul doppio binario morale dei vizi privati e delle pubbliche virtù, del predicare bene mentre si sta razzolando male. La corruzione e i falsi in bilancio, intanto, non soltanto continuano a generare ingiustizie, ma danneggiano pesantemente anche la vita economica statale perché, quando i giochi sono truccati, a vincere sono spesso i più furbi, non i più bravi. Perciò, bisognerebbe che gli italiani riacquistino responsabilità e rispetto nei confronti delle regole, nella consapevolezza che l’interesse generale così conseguito, se soltanto si cerca di superare tale miope visione della realtà, è l’autentico e unico interesse di ciascuno di noi, cittadini e consumatori.
Enrico Riccardo Montone
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