Con il termine sharing economy s’intende un modello economico basato su scambio e condivisione di beni, siano questi materiali o meno, in modo tale da ridurre l’impatto ambientale che il consumismo produce. A livello semantico, tale espressione rimanda a una sorta di cooperazione fra il donatore e il ricevente. Comprare un automobile e condividerla con il proprio vicino di casa, distribuendo pertanto le spese sostenute in modo equo potrebbe, a un primo impatto, apparire come un ottimo esempio del meccanismo: in realtà, la sharing economy consiste in un metodo mediante cui bypassare l’attuale legislazione.
Più nello specifico, l’ideologia comune è quella che un maggiore consumismo genera un ragguardevole introito di denaro. Inoltre, attraverso le nuove piattaforme digitali si crede fermamente di creare sempre più posti di lavoro: in effetti, ciò che avviene concretamente sul Web è l’ampliamento delle opportunità di consumo. Una sana competizione di mercato è quanto di meglio possa esserci, dal momento che concorre all’innovazione, mentre la corsa al ribasso dei prezzi coadiuva lo sfruttamento di manodopera, il cui risultato corrisponde a salari più bassi e a lavoratori insoddisfatti. Con la sharing economy, quindi, avviene solamente una liberalizzazione nei fatti, tramite un totale aggiramento delle regole. Per di più, con la messa in atto di questo nuovo modello economico si contribuisce al depennamento della normativa sul lavoro e sulla sicurezza dei salariati.
Pensiamo a Uber, azienda statunitense che fornisce un servizio di trasporto automobilistico privato mediante un’app, grazie a cui si mettono in collegamento passeggeri e autisti e si ha ha un mastodontico depauperamento di forza lavoro, giacché il presupposto della compagnia è quello che i propri impiegati siano tanti piccoli imprenditori detentori di un certo capitale che, se adeguatamente sfruttato, ne remunera la professione. In realtà, l’impresa percepisce il 20% dei ricavi, settando tariffe in cambio dell’impiego del software e, dunque, lasciando i dipendenti in balia di nessuna garanzia occupazionale (assicurazione sanitaria, malattie, ferie retribuite e così via). Utilizzare al meglio le risorse esistenti per ottimizzarne la resa e diminuire i consumi: ecco, in sostanza, il motto della sharing economy. Ciò, comunque, talvolta non avviene: aziende come Airbnb, per esempio, una società online che mette in contatto persone in cerca di un alloggio con chi ne loca di propri, vanno incontro proprio a un aumento di materiale che, nel contempo, rimane inutilizzato.
Ovviamente, non tutti i casi sono tanto e sempre negativi, perché i prodotti non adoperati e prevedibilmente svalutati dalla crisi possono anche divenire oggetto di trasformazione. Tuttavia, la “mercificazione” delle vite altrui è il vero risultato di un simile modello economico: prolungare il proprio lavoro senza ore prestabilite, divenendo effettivi imprenditori di sé stessi, a lungo andare porta a un rischio di annullamento della libertà, poiché implicherà un continuo paragone fra il piacere e il dovere – l’affitto della casa o della macchina ad estranei, per citare esempi già trattati. Il crollo economico a cui molti Stati sono soggetti e la reazione di numerosi gruppi di persone conducono alla consapevolezza che è forse in atto un tentativo di modificazione di criteri e parametri del lavoro, sebbene qualche soluzione rischi alla lunga di rendere schiavi i lavoratori di un meccanismo contorto, il cui fine ultimo rimarrà, dunque, il profitto finanziario.
Anastasia Gambera
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