Con l’avvento della crisi, sono sempre più numerosi i giovani che, anziché fuggire all’estero, cercano di fare carriera avviando delle startup, ovvero aziende totalmente nuove, nate, presumibilmente, da un’idea inizialmente vaga. Intraprendere una strada come questa, però, comporta spesso un certo dispendio di denaro, soprattutto quando si deve registrare la propria società presso il Registro delle imprese: chi svolge in Italia un’attività economica mediante un’impresa, infatti, deve obbligatoriamente registrare quest’ultima presso tale registro, poiché esso ha il compito di rendere pubblici gli enti esistenti e ciò che li riguarda.
Per aiutare chi ha difficoltà, anche solo relativamente, a far fronte a tutte le spese che occorrono, è nata la firma digitale: essa corrisponde a un insieme di dati in forma elettronica, connessi ad altri dati elettronici mediante associazione logica, il tutto adoperato come metodo di riconoscimento informatico. Da un po’ di tempo si è largamente espansa la pratica di utilizzare la firma digitale come prototipo standard tramite cui dare vita a una startup. La presentazione dell’emendamento al decreto legge Investment Compact che autorizza tutto questo ha fatto scatenare i notai in una lotta contro gli sturtupper che hanno implementato le proprie aziende usufruendone. Secondo la notaia Eliana Morandi, infatti, permettere ai futuri imprenditori italiani un tale avvio nel settore sarebbe un grave reato, poiché attraverso queste metodologie si potrebbero mettere in pratica, nel caso lo si volesse, una serie di trasgressioni: furto di identità, riciclaggio di denaro, evasione fiscale e corruzione. Nonostante la firma digitale si comporti esattamente come un incubatore – organizzazione che mette a disposizione dei nuovi impresari una vasta gamma di servizi, compresi gli spazi fisici, prestazioni di supporto allo sviluppo del business, etc., il tutto volto ad accelerare e rendere coerente il processo di creazione dell’impresa -, i “cancellieri” sostengono fermamente che essa non farà altro che renderne problematica la trasparenza.
Il presidente della PNIcube – associazione degli incubatori e delle Business Plan Competition -, Marco Cantamessa, è ostile nei confronti dell’agitazione dei notai e sostiene fermamente che la firma digitale non sia altro che un supporto maggiore verso le nuove startup in fasce, capace di consentire loro uno sviluppo prima del tempo, oltretutto a costo zero. Un’impresa come le S.r.l., ovvero le società a responsabilità limitata, nel caso ci si recasse da un pubblico ufficiale per la sua costituzione, avrebbe infatti costi fissi che si aggirano attorno ai 700-800 €, ma farebbe guadagnare ai notai un compenso diverso, a seconda anche della natura dell’azienda. Si tratta, allora, di un conflitto di interessi, o di una lotta affinché almeno qualcosa mantenga contorni di legalità?
Anastasia Gambera
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