CILE – Dal 2013 sono stati innumerevoli i casi di donne violentate da patrigni, nonni, parenti e non: tra questi, diversi quelli sfociati in gravidanze, nessuno conclusosi con un aborto. La frase, per quanto cinica possa suonare, elude ogni barriera di illusione e descrive una verità nuda e cruda, che affligge le donne cilene incapaci di interrompere uno stato interessante non voluto e ottenuto a seguito di uno stupro. Oggi, infatti, in Cile non è cambiato nulla rispetto a molti decenni orsono e la maggior parte delle donne coinvolte in simili casi è minorenne, un’aggravante certamente da non sottovalutare. Abuso, giovane età, non-volontà, condizioni della vita, poco importa al Governo cileno: l’aborto è illegale a prescindere da ogni contingenza, non esistono norme atte alla deroga del divieto. La disciplina normativa che concerne l’aborto in Cile è tra le più restrittive al mondo e i precetti normativi al riguardo sono locati nella sezione inerente il Codice Penale più antico dell’America Latina: Crimini e Delitti contro l’Ordine Familiare e la Moralità Pubblica.
“L’interruzione maliziosa della gravidanza – definizione letterale che trova la sua nascita in una sentenza della Corte Suprema di Giustizia cilena – non è mai giustificata, e sia le donne che hanno attuato tale pratica che i medici consenzienti a ciò saranno perseguibili legalmente». Dal 1989 vige il divieto sopracitato. La norma affonda le sue radici nell’epoca della dittatura militare di Augusto Pinochet: il Paese ha una forte tradizione di governi conservatori, su base cattolica, che si sono succeduti negli anni e che non hanno mai volutamente apportato alcun mutamento per reintrodurre l’aborto terapeutico. La pratica, infatti, era legale fino all’avvento della dittatura. La vita e il conseguente benessere fisico e psicologico della donna sono subordinati a quella del feto in gestazione. Secondo la legge locale, la donna non solo deve portare a termine la gravidanza, ma è costretta a correre ogni pericolo da essa derivante pur di riuscirci. Ciò significa che è ignorata la natura dello status di gestazione – che derivi da una abuso o meno -, nonché le circostanze mediche del feto: che sia deforme, con particolari patologie o che la sua venuta al mondo possa anche compromettere la vita della madre stessa, è assolutamente irrilevante.
Sprezzanti di ciò, le donne cilene continuano a ricorrere a pratiche illegali per interrompere il processo. I dati del rapporto annuale risalente al 2013 sui diritti umani dell’Università Diego Portales descrive, non a caso, una media annua di 70.000 aborti volontari. Il metodo più comune ed economico per arrivare a un aborto spontaneo consiste nell’assunzione di Misoprostol (farmaco utilizzato per la cura delle ulcere), che è stato adattato all’uso ginecologico e riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS). Le farmacie del Cile, però, non commerciano tale farmaco: molte se lo procurano comprandolo all’estero o al mercato nero, dove i costi di una dose variano dai 65 ai 200 dollari. Per le suddette ragioni, è stata messa in atto una polemica campagna di sensibilizzazione con il fine di mostrare alcune donne intente a spiegare, tramite finti tutorial, come provocarsi un aborto grazie a incidenti casuali: cadute dalle scale, investimenti stradali. La disperazione è, certamente, la causa principale di tali escamotage e ciò ha condotto, il 31 gennaio, la Presidentessa Cilena Michelle Bachelet a presentare un disegno di legge mirato a depenalizzare l’aborto terapeutico in tre casi: quando la vita della madre è compromessa dalla gestazione, quando la gravidanza è dovuta a una violenza sessuale, quando il feto non ha possibilità di sopravvivere. Violazione dei diritti umani e coazione della continuità della gestazione continuano ad essere, intanto, il pane quotidiano delle donne cilene.
Francesco Raguni
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