La lingua come strumento politico occulto? È possibile, è quanto accaduto a Nairobi, in Africa, dove l’attuale Presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, ha camuffato le proprie reali intenzioni contro la decisione della Corte suprema utilizzando la lingua del popolo, lo swahili.
Lo scorso 1 settembre la Corte aveva deciso l’obbligo per la Commissione indipendente sulle elezioni e i confini (Iebc) di organizzare nuove elezioni poiché quelle dell’8 agosto dovevano ritenersi nulle. A tal proposito, la prima reazione “di facciata” di Kenyatta è stata positiva e in lingua inglese, ha subito dichiarato di voler rispettare la decisione della Corte pur non condividendola. Ma immediatamente dopo il suo primo discorso, il Presidente ha pronunciato un secondo discorso, questa volta in lingua swahili, cambiando non solo la lingua di comunicazione ma anche il proprio look e urlando tutta la propria rabbia nel mercato centrale di Nairobi dinanzi ad una folla di sostenitori inferociti. «I giudici sono wakora, ovvero furfanti», ha così dichiarato, promettendo poi di occuparsene personalmente dopo aver risolto il piccolo problema delle elezioni. L’atteggiamento “bipolare” del Presidente Keniano in realtà è un atteggiamento molto comune nella politica del Kenya e dell’Africa in generale, si ricorre infatti sempre più spesso alle lingue locali, come lo swahili nel caso di Kenyatta, per creare «uno spazio più privato», così lo ha definito – Internazionale.
«Sono uno di voi» è la frase più comune della politica dei giorni nostri, africana e non, che mira al populismo per condizionare a proprio vantaggio l’opinione pubblica. La lingua diventa così uno strumento occulto per facilitare ai politici il raggiungimento dei propri obiettivi e allo stesso tempo permettere al popolo di comunicare meglio con i propri rappresentanti. Riuscirà Kenyatta nel suo intento? Non resta che attendere i prossimi risvolti.
Ester Sbona
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