Il 19 luglio 1992, alle ore 16.58, una Fiat 126 rubata, contenente circa 100 chilogrammi di esplosivo del tipo Semtex-H telecomandato a distanza, esplose in via Mariano D’Amelio 21, sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita; l’agente sopravvissuto Antonino Vullo descrisse così l’esplosione: «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto…decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati».
Nel 1992 avevo 11 anni, e come tutti i bambini/piccoli adolescenti di paese, ci stancavano quelle immagini trasmesse dalla televisione che dopo un po’ che le guardavi sembravano sempre le stesse, sempre uguali; sentivamo parole che faticavamo a comprendere. Eravamo stanchi, tutti i canali televisivi erano stati monopolizzati da quella che chiamavano la “strage di Capaci”, non si parlava d’altro. La programmazione normale, quindi i nostri telefilm preferiti, non vennero trasmessi, lasciando il posto a edizioni straordinarie dei telegiornali. Dopo 57 giorni la tragedia si ripeté, cambiavano solo nomi e location, non più Falcone/Capaci, ma Borsellino/via D’Amelio. Ancora edizioni straordinarie dei telegiornali, titoloni sulle prime pagine di tutti i quotidiani, che stavolta cominciarono a incuriosirci, anche noi cominciammo a chiederci cosa succedeva. E poi, il nulla, il silenzio; un silenzio assordante.
Dalle voci dei figli di quegli anni: bambini e adolescenti che hanno vissuto quei giorni, non rendendosi subito conto di tutto quel caos che li circondava e li catapultava in un vortice stravolgendo il loro quotidiano; le nostre vite non sarebbero state più le stesse. Un anno dopo la visita di Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento fu un tuonare di «convertitevi», un grido di speranza per un popolo martoriato, per un popolo che ancora non aveva rimarginato le proprie ferite. Anche lì, a Piano San Gregorio, nella Valle dei Templi, un silenzio che faceva paura, mentre le parole del pontefice tuonavano contro chi aveva distrutto le vite di un’isola, le speranze dello Stato. Erano stati distrutti gli ideali e le speranze di molti… ma poi noi siciliani, popolo dalle mille risorse ci siamo rimboccati le maniche e con innumerevoli iniziative abbiamo iniziato, e continuiamo ancora oggi, a rendere onore a questi uomini e donne che per la libertà di tutti hanno perso la loro, per permettere a tutti di respirare quel fresco profumo di libertà che Paolo Borsellino tanto proclamava.
Letizia Bilella
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