Centosessantatré inchieste internazionali in due anni, una ogni quattro giorni. Duecentonovantasette persone denunciate e arrestate, trentacinque aziende sequestrate e un valore pari a cinquecentosessanta milioni di euro per traffici illeciti di rifiuti nel 23% dei casi, di prodotti agroalimentari per il 9%, di specie animali protette e merci contraffatte nel 68%. Questi i dati dell’ANSA riferiti a merci e animali che viaggiano alla velocità della luce, seguendo le rotte di un mercato nero sulle autostrade del mare o per via aerea e tracciando itinerari che coinvolgono il nostro Paese, il quale occupa una posizione geograficamente strategica e possiede uno spiccato savoir faire in fatto di criminalità organizzata. Così, per i grossi carichi e le lunghe distanze, i porti sono le mete preferite: centoventidue quelli interessati dalle inchieste, settantadue volte utilizzati come punti di destinazione e cinquanta volte come aree di partenza. Quelle più indagate sono le banchine di Venezia, con all’attivo dieci inchieste relative ai traffici di partenza, seguite da quelle di Napoli con sei e da quelle di Bari con cinque. Per gli sbarchi, il porto più operoso è quello di Ancona, con quota tredici inchieste, seguito da quello di Civitavecchia con otto inchieste – scelto perché lontano dai riflettori per le indagini sulla mafia e a due passi dalla Capitale – e da quelli di Bari, di Gioia Tauro e di Taranto con sette indagini, tutti snodi fondamentali per gli ingranaggi criminali globali. Qui, infatti, approdano le merci incriminate che arrivano da Cina, Grecia, Turchia, Albania, India, Bulgaria, Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Nuova Zelanda. Si tratta di “prodotti”, come si legge nel dossier redatto da Legambiente. Di mercati illegali.
Traffici illeciti di rifiuti, merci contraffatte, prodotti agroalimentari e specie protette: numeri, storie e scenari della globalizzazione in nero, mossi dalle mafie transnazionali, vedansi le triadi cinesi, la yakuza giapponese, la mafia russa e la camorra napoletana: tutte senza nessuno scrupolo, facilitate da pochi controlli, allettate da una mole impressionante di soldi e coadiuvate da furbe alleanze con imprenditori e faccendieri disposti a ogni tipo di corruzione pecuniaria. Stando ai dati riferiti dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e riportati puntualmente nel dossier, negli ultimi due anni i rifiuti illeciti del Bel Paese sono soprattutto in uscita. Da Venezia, Bari, Napoli, Ancona, Civitavecchia, Salerno, Taranto, La Spezia, Pozzalla, Genova, Gioia Tauro, Livorno, Catania e Ravenna. Partono con i formulari di accompagnamento falsificati, con i quali si spacciano veri e propri scarti per innocue materie prime, tramite una strategia che permette di complicarne la tracciabilità. Si tratta della triangolazione tra Paesi, che consente ai rifiuti di passare di mano in mano facendone perdere le tracce. Tanto più che già, vuoi per la capacità mimetica dei flussi illegali di rifiuti in quelli legali, vuoi per le differenti legislazioni e le scarse armonizzazioni legali, vuoi per la frammentazione dei controlli e la carente preparazione tecnica, è difficile distinguere un rifiuto da ciò che non lo è.
A essere stipata nei container in partenza è innanzitutto la plastica, la più trafficata a livello globale, tanto da lasciare le aziende italiane che si occupano di riciclo vuote e senza lavoro. Si tratta di una sostanza molto pericolosa per la salute, specialmente perché potrebbe essere utilizzata come materia prima per la produzione di giocattoli, biberon e prodotti sanitari. Frequentemente stipati sono anche rottami ferrosi, carta, vetro, pneumatici fuori uso, tessuti e rifiuti elettrici ed elettronici (questi ultimi costituiscono il 2% delle tonnellate di pattume sequestrato nei porti italiani nel 2012). Scaricati i rifiuti, le navi per il ritorno vengono saturate con le merci contraffatte. Sebbene solo il 40% della popolazione italiana ritenga la contraffazione un reato, quest’ultima è una seria minaccia tanto per lo Stato quanto per la salute umana. Si sospetta, infatti, che i prodotti provenienti dai Paesi importatori di grosse quantità di rifiuti siano stati fabbricati proprio con quegli scarti usciti illegalmente. Il risultato? Bolle di sapone contenenti un batterio resistente agli antibiotici, che si annida nelle cavità dell’uomo e che potrebbe essere fatale; soldatini di plastica marcati fasullamente CE, che contengono ftalati usati per rendere più morbida la gomma e responsabili di malformazioni agli apparati urogenitali; spade di plastica contaminante dal cromo; batterie taroccate per i cellulari, facilmente esplodenti e con altissime percentuali di sostanze tossiche, come il mercurio.
Transitano nei porti dove passano anche armi e droga: lo Stivale ne è la principale base logistica, con il porto di Taranto fra i più interessanti. Tuttavia, bastano anche gli aeroporti per trafficare le poco ingombranti etichette false da apporre ai vestiti per simularne l’autenticità o l’alta tecnologia. Tra i prodotti contraffatti, anche quelli enogastronomici. Quello del falso made in Italy agroalimentare è un mercato che da noi vale più di quattro miliardi di euro l’anno e nel resto del mondo cinquanta miliardi di euro. Falsa evocazione in etichetta e sui documenti di vendita di marchi Dop e Igp, pomodoro privo di documentazione sulla tracciabilità, commercializzazione di olio di oliva alterato con la clorofilla o deodorato (olio straniero di pessima qualità, derivato da metodi di coltivazione superintensivi e da olive lasciate a decantare e a sviluppare acidi maleodoranti). Per non parlare del mercato biologico: tale solo sulla carta, tutt’altro che nella realtà.
Nel giro dei mercati illegali rientrano anche le specie animali protette dalla Convenzione Cites (firmata a Washington nel 1973 da centosettantacinque Paesi). Un affare illecito corpulento e dove la corruzione là fa da padrona, considerando che nell’area di provenienza delle specie protette una tangente può valere molto più della retribuzione ufficiale mensile. Il volume medio annuo delle importazioni italiane è di tutto rispetto: venticinquemila uccelli vivi, pari al 7% del mercato mondiale; centotrentamila rettili vivi, pari al 6,5%; settecentottantamila pelli di coccodrillo, pari al 31%; ventimila formazioni di corallo, equivalenti all’1,8%. Con un fatturato in nero pari a circa sette miliardi di euro l’anno. All’80% ammontano gli illegali milioni di euro l’anno investiti nel circuito del business di dieci milioni di pesci importati per arricchire gli acquari. Arrivano da Sri Lanka, Bali e Mali fino a Fiumicino, in scatoloni con pochissima acqua, nella quale le specie più svariate stagnano per quarantotto ore, con evidenti rischi sanitari per il futuro acquirente. Accanto alle specie protette stanno gli animali da compagnia provenienti dall’Est Europa, trasportati con documenti falsi, senza l’idoneità per la vaccinazione causa la tenerissima età e non ancora svezzati.
Enrico Riccardo Montone
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