Come il colossal fumettistico di Patty Jenkins, tra lodi e critiche, sta cambiando il volto del femminismo moderno.
A meno che, durante gli ultimi dieci anni, non abbiate vissuto in una caverna, non potete ignorare che il genere cinematografico del momento siano decisamente i cinecomics: dalla trilogia del Batman di Nolan, all’ascesa degli Avengers, le gesta dei supereroi più amati si sono succedute – quasi annualmente – nelle sale cinematografiche, contribuendo a creare una tra le industrie più prolifiche del mondo che ha generato circa 15 miliardi di dollari dal 2007 ad oggi. Fino a questo momento, tuttavia, la quasi totalità degli eroi del grande schermo era rappresentata esclusivamente da uomini: i vari Superman, Iron Man, Thor sono tutti protagonisti estremamente polarizzanti che costringono, fisiologicamente, i personaggi femminili presenti ad un ruolo di secondo piano: tipicamente, l’interesse romantico dell’eroe principale.
Questa tendenza è stata drasticamente invertita in Wonder Woman. Per la prima volta una donna è la protagonista dell’adattamento cinematografico di un fumetto e, nonostante i dubbi iniziali relativi alla scelta della regista e dell’attrice principale, il progetto si è rivelato un successo senza pari nella storia di Hollywood: più di $100 milioni nella sola settimana di apertura e quasi $800 milioni fino ad oggi, il film di Patty Jenkins ha ricevuto il plauso della critica e l’approvazione della stragrande maggioranza dei suoi spettatori. La regista, infatti, ha recentemente retwittato il post di un’insegnante di asilo riguardo al cosiddetto Wonder Woman effect e la risonanza mediatica che questo sta avendo, soprattutto tra i più piccoli: la nota racconta di vari episodi successivi all’uscita del film, come quello di una bambina che ha chiesto di poter indossare la stessa armatura della protagonista per «essere pronta nel caso in cui dovesse salvare il mondo».
Per dar vita a Diana, principessa delle Amazzoni, la scelta è ricaduta su Gal Gadot, ex miss Israele e precedentemente nota al grande pubblico per essere apparsa in Fast & Furious – Solo parti originali. L’attrice israeliana ha recentemente dichiarato su Rolling Stone di aver anche pensato ad abbandonare il mondo del cinema prima di essere stata ingaggiata da Zack Snyder per la parte e che non avrebbe mai immaginato che il film potesse riscuotere un tale successo. La sua performance nei panni di uno dei personaggi dei fumetti più vecchi e amati dal pubblico ha, infatti, largamente superato anche le più rosee aspettative dei fan (nonché messo a tacere le critiche dei suoi detrattori) il che, secondo l’attrice, dimostra che «il mondo era pronto per un film d’azione di stampo femminile».
Sin dal suo esordio nel 1941, Wonder Woman è stata considerata come l’icona femminista per eccellenza: simbolo di giustizia, pace ed uguaglianza, da più di settant’anni rappresenta nell’immaginario collettivo la perfetta sintesi tra i valori del genere femminile e il carisma del supereroe dei fumetti americani. Nella mente del suo autore, William Moulton Marson, Wonder Woman incarna un nuovo ideale di donna: non più elemento passivo nella dialettica sociale ma soggetto principale di questa, «nata per combattere l’idea che le donne sono inferiori agli uomini e per ispirare fiducia in se stesse nelle giovani». Tutto ciò traspare perfettamente nel film e, in diversi punti della pellicola, appare evidente che uno dei fili conduttori della trama sia appunto la legittimazione femminile nella società patriarcale degli anni della Prima Guerra Mondiale. Provenendo da una società guerriera totalmente matriarcale, come le Amazzoni della mitologia greca, la figura di Diana costituisce un unicum nel suo genere: questa rifiuta di piegarsi alle logiche del mondo degli uomini e affronta a testa alta le sue abitudini e i suoi tabù. Iconica è, certamente, la scena dell’attraversamento della No man’s land (terra tra le due trincee appartenente a nessun uomo, ironicamente conquistata da una donna) durante la quale Diana fa piazza pulita dei soldati tedeschi senza nemmeno sforzarsi troppo. Estremamente interessante, soprattutto per la critica implicita alla tendenza di Hollywood di eccessiva oggettificazione del corpo femminile, è il momento in cui Diana sorprende Steve Trevor, una spia americana in fuga dai tedeschi e naufragato sull’isola delle Amazzoni, seminudo in una vasca.«Ho davvero toccato con mano cosa significa essere marginalizzato e da uomo provo una grande compassione per le attrici che lo subiscono» ha commentato Chris Pine, attore protagonista di questa sequenza in merito al rovescio di ruoli a cui si assiste nella scena.
Nonostante la quantità esorbitante di giudizi positivi e l’apprezzamento del pubblico in tutto il mondo, il film non è stato esente da critiche. Da ultimo James Cameron, leggendario regista di Titanic, Terminator e Alien (solo per citare alcuni tra le sue pellicole più famose) ha aspramente contestato il film definendo Wonder Woman «un’icona oggettificata» e di come questo sia l’ennesimo esempio della solita Hollywood maschilista sotto mentite spoglie. In un’intervista per il The Guardian, Cameron mette a confronto il personaggio interpretato da Gal Gadot con la sua protagonista in Terminator «Sarah Connor non è un’icona di bellezza […] È un personaggio complicato, una madre terribile e si è guadagnata il rispetto degli spettatori solo attraverso la sua determinazione». La risposta di Patty Jenkins, regista di Wonder Woman, non si è fatta attendere e ha commentato gli attacchi di Cameron mettendo in luce le diverse geometrie che il concetto di «forza» implica e che per essere definito tale, un personaggio non deve essere necessariamente emotivamente travagliato.
Francesco Maccarrone
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