Il grande pregio del nuovo film del regista Ivano De Matteo sta nel farci entrare gradualmente nella sua opera e questo riesce grazie alle atmosfere ovattate di un ambiente falso e amorale. Due elementi emergono con particolare chiarezza: in primo luogo l’assurda censura di mercato che fa giungere una valida opera datata 2009 solo ora sui nostri schermi, dopo essere invece stata vista in giro per il mondo. Forse perché, in un Paese come l’Italia, occorrevano le prove e i premi di Gli equilibristi (2012) e de I nostri ragazzi (2014) per far visionare questo film? Sembra di sì. In secondo luogo, l’altro elemento è relativo al trailer che è in realtà uno spoiler, rivelando anticipatamente alcuni momenti chiave della vicenda. Ciò è dannoso nei confronti del film dell’attore/regista italiano. Perché De Matteo mette in scena un carnevale escheriano, mai realmente tragico ma solo miseramente grottesco.
La storia ruota attorno ad Alfredo (Antonio Catania) e Susanna (Monica Guerritore), una coppia di cinquantenni uniti da quando all’Università manifestavano contro la discriminazione, sono pronti per trascorrere, come sempre, l’estate nella loro tenuta di campagna. Susanna rimane scioccata da Nadja (Victoria Larchenko), una ragazza ucraina dell’età di diciassette anni costretta alla prostituzione. Come sempre, non riesce a far finta di niente e l’accoglie in casa, intenzionata a portarla con sé a Roma e a trovarle una sistemazione. La giovane inizia ad aprirsi e a raccontare qualcosa di sé. Indugiare su ulteriori dettagli di una trama articolata che traballa tra vita, amore, apparenze e interessi sociali, è assai inutile.
Le figure di De Matteo sembrano non avere vita propria, appaiono come burattini comandati da un “mangiafuoco” e diretti da una scrittura tirannica; viene fuori la morale piccolo borghese, la mente gretta dei radical chic che pretendono soltanto di ostentare la loro “conquista” in fin dei conti, nonostante abbiamo delle buone intenzioni con la ragazza. Personaggi che sembrano essere terrorizzati di non piacere al proprio demiurgo (e al mondo in cui essi vivono). L’unica ragione che guida le loro vite sembra essere la necessità di dire, di «sfidare l’inferno» che li minacciava fin da quando erano all’Università nella piena giovinezza con la loro morale piccolo-borghese dei rivoluzionari di sinistra. È come se Mario Monicelli tornasse a parlare con questi personaggi del film e alla rabbia che nasceva nel regista nel vedere gli studenti del ’68, ricchi e finti progressisti. Si potrebbe parlare di soggetti alienati, parafrasando Hegel. In questa opera è come se la vita fosse la “negazione” degli individui, l’aspetto contrario. In questa situazione, diviene possibile ai personaggi immaginarsi come isolati letteralmente e metaforicamente. È appunto questa “immaginazione” che fonda tutta l’ideologia borghese. Una delle caratteristiche di grande importanza del cinema di De Matteo è condurre lo spettatore, passo dopo passo, sequenza dopo sequenza, a vestire i panni dei personaggi che vengono mostrati sullo schermo. In questa cornice di referenza, se si guarda questa ‘bella gente’ da un punto di vista progressista, non si può che condividere la condotta di Susanna e la sua volontà di riscattare la giovane Nadja. Nel film vengono mostrati anche la generazione dei figli che sembrano essere il risultato dei genitori.
L’inconfondibile tocco di De Matteo, già conosciuto nei due film suddetti, fa vivere un mondo falso e amorale e riesce a svelare ciò che si nasconde dietro le apparenze. Le musiche ed il montaggio sono perfettamente funzionali alla narrazione, guidando l’alternanza tra le atmosfere oniriche della campagna e il violento impatto dei personaggi talvolta chiassosi.
Enrico Riccardo Montone
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