TURCHIA − Più di 1500 persone arrestate, 200 morti e un tentato colpo di stato fallito: all’alba del 16 luglio la Turchia si sveglia profondamente scossa da una guerra civile, iniziata il 15 notte e finita soltanto poche ore fa, con la sconfitta dei rivoluzionari. 104 golpisti, 41 poliziotti, 2 militari lealisti e 47 civili – secondo quanto riporta la Repubblica – hanno perso la vita per le strade di Ankara e Istanbul. Turchi contro turchi a combattere e perire per scegliere quale tra i mali correnti dovesse governarli: Erdogan, il Presidente tanto contestato, o gli estremisti di destra, fautori di un futuro regime militare? Lo stesso attuale Capo dello Stato turco stamattina ha dichiarato che «il tentativo di colpo di stato è stata opera di un piccolo gruppo all’interno dell’esercito, che ha usato dei blindati. Ho sentito che nelle forze armate ci sono dei contrasti, ma si tratta di un gruppo piccolo contro tutto il resto delle forze armate e delle forze di polizia». «Il nostro esercito è pulito, quello che è successo non deve gettare una macchia sulle nostre forze armate», a sua detta verrà interrotta qualsiasi «iniziativa che interrompa la democrazia». Parole facili per chi adesso ha di nuovo “certezza” della sua posizione, certamente impensabili da dire ieri notte quando il suddetto è prontamente scappato dal focolare anatolico per non essere preso. La sua fuga in aereo, però, ha avuto comunque tristi esiti: nessun Paese europeo aveva dato il suo benestare per l’atterraggio e l’asilo politico. Dopo il no della Germania, si era diffusa una notizia di un’ipotetico sbarco a Roma, smentita poco dopo; si era addirittura pensato anche alla fuga in Qatar. Alla fine l’aereo presidenziale (un Gulfstream 4) non ha mai lasciato i cieli turchi, sorvolando nel nord della Nazione per mantenersi in salvo. Una volta sbarcato a Istanbul, Recep Tayyip Erdogan avrebbe detto: «In questo Paese regna soltanto il potere della nazione e questo ve lo dico in quanto Presidente della Repubblica».
Curioso come lo stesso abbia invitato i cittadini a scendere in piazza per combattere contro il tentativo di sovversione dell’ordine nazionale costituito tramite un semplice collegamento via FaceTime, trasmesso dall’emittente televisiva Cnn Turkey, quando – tempo addietro – bandì i social network dal web turco. Egli, appellandosi pure alle moschee, accusò il predicatore islamico radicale, Fetullah Gulen, di essere dietro al colpo di stato in questione. Le tensioni tra i due, infatti, non sono nuove: Gulen è l’acerrimo nemico di Erdogan e si trova dal 1999 in esilio volontario negli Stati Uniti (qui si dice controlli un impero economico da circa 20 miliardi di dollari). I grandi poteri mondiali, nel frattempo, non si sono tirati indietro e hanno seguito con grande attenzione la guerra civile del Bosforo: dalla Russia, che di recente aveva fatto pace con la Turchia dopo periodi molto tesi, agli USA, il cui Presidente Barack Obama si era schierato a favore di Erdogan e del «governo turco democraticamente eletto», passando anche per la Merkel, Cancelliera tedesca, la quale ha affermato come «l’ordine democratico» debba «essere rispettato». Il Primo Ministro turco, Binali Yildirim, dal canto suo aveva dichiarato: «Le nostre forze useranno la forza contro la forza», giurando che i golpisti «pagheranno il prezzo più alto». Egli ha pure ringraziato per il sostegno i partiti d’opposizione e ha invitato la gente a restare calma, riponendo fiducia nel’operato del Governo.
La rivoluzione turca era stata comunque ben organizzata: nelle ambasciate turche sparse per il Globo si sapeva cosa sarebbe accaduto nell’antica terra degli Ittiti persino mezz’ora prima dell’attacco. Ad avvertirle erano stati gli stessi militari golpisti, mentre a riferire ciò sono state diverse fonti diplomatiche europee le quali hanno specificato che «questo sembrava essere il segnale che si trattava di una operazione gestita dai massimi livelli delle forze armate». Il Paese si è trovato spaccato, alcune persone sono persino scese in piazza ad applaudire i carri armati e sostenere la rivolta, altri invece si sono dichiarati fedeli a Erdogan. La guerra civile turca poteva avere comunque conseguenze ancora più catastrofiche: l’esercito dalla bandiera cremisi è la seconda più grande forza armata presente nella NATO dopo gli Stati Uniti, con poco più di un milione di arruolati. Lo Stato Maggiore dell’Esercito aveva annunciato sul suo sito – secondo quanto riporta la Repubblica – quanto segue: «Abbiamo preso il potere per proteggere la democrazia e ristabilire i diritti civili. Tutti gli accordi internazionali sarebbero stati mantenuti, e le buone relazioni con tutti i Paesi del mondo continuate». Il casus belli era stato ravvisato dagli stessi nella «restaurazione dell’ordine costituzionale, della democrazia, dei diritti umani e delle libertà, garantendo che la legge regni di nuovo nel Paese».
I militari sovvertitori avevano instaurato la legge marziale e il coprifuoco, oltre a sospendere le trasmissioni radiotelevisive e oscurare Facebook e Twitter; poi hanno subito mirato ai palazzi istituzionali. Alla fine dietro l’insurrezione militare, vi sarebbe stata la mano di Muharrem Kose, colonnello turco rimosso dal corpo dello Stato Maggiore Turco durante il marzo passato. Hulusi Akar, Capo di Stato Maggiore fedele ad Erdogan è stato prima catturato e poi liberato, mentre Efkan Ala, Ministro dell’Interno turco è stato il primo ad annunciare il fallimento del golpe.
La battaglia di Ankara ha mietuto un quantitativo di 60 vittime. Per tutta la notte nell’area del palazzo presidenziale vi sono stati scontri armati: i cieli della capitale sono stati violati da aerei da guerra ed elicotteri militari, la confusione e il caos hanno regnato sovrani. Emblema di ciò è stato un F-16, di cui ancora non si è capito lo schieramento, che ha bombardato mezzi corazzati schierati intorno al suddetto edificio. Ad un certo punto persino i militari si sono scontrati tra di loro, con diversi caccia dell’esercito lealista che hanno abbattuto elicotteri golpisti. I carri guidati dai sovvertitori della Repubblica hanno persino aperto il fuoco attorno al Parlamento turco, ove è esplosa una bomba che ha causato diversi feriti. Verso le due di notte, dando un chiaro segnale che il governo stava pian piano riprendendo le redini del Paese, è stato ordinato l’abbattimento immediato di qualsiasi mezzo volante che, finita la guerra civile, continuasse le operazioni rivoluzionarie.
Per quanto riguarda Istanbul, invece, sono stati chiusi i due ponti che collegano la parte orientale e occidentale al Bosforo (ivi è pure scoppiata una bomba); l’aeroporto è stato circondato da carri armati e tutti i voli sono stati immediatamente cancellati. La Polizia è subito scesa in strada in tenuta anti-sommossa per scontrarsi contro i militari in varie zone della città, mentre molta gente si è riversata nelle strade non solo per scegliere con chi schierarsi, ma per correre ai bancomat e ai market aperti per fare approvvigionamenti di denaro e viveri. Nelle ore successive poi, i militari presenti poi sul Bosforo si sono arresi, definendo la fine della guerra civile e degli scontri anche nelle zone limitrofe.
Risuonano emblematiche le parole di Gianluca Di Feo sulle pagine de La Repubblica: «La scommessa dei generali ribelli è fallita. Hanno tentato una mossa anacronistica, ignorando il cambiamento del paese. Il 70 per cento dei soldati sono ventenni di leva: non si tratta più dei figli di contadini ignoranti, che trent’anni fa hanno obbedito ciecamente agli ordini dei superiori. Sono giovani d’oggi, che difficilmente avrebbero aperto il fuoco sulla folla».
A sconfiggere i golpisti è stato lo scorrere del tempo. Il Colpo di Stato in piena regola prevede l’oscuramento di ogni mezzo di comunicazione, la conquista delle sedi istituzionali e la cattura (con quasi sempre immediata uccisione) del leader da spodestare. Se i primi due elementi vi sono stati, il terzo – quello fondamentale – è mancato proprio per un tempismo non proprio ottimale. Erdogan, a nord del Paese, si è subito alzato in volo sul suo jet per restare lontano dal conflitto e non essere preso, lasciando al ramo dell’esercito che lo sosteneva e alla Polizia il compito di bonificare la rivoluzione. Egli peraltro ha pure coadiuvato le operazioni e aizzato la gente a scendere in piazza per porre fine a quanto stava accadendo. Alla fine, il popolo – nonostante Erdogan avesse fatto arrestare diversi giornalisti, limitato la libertà di stampa e di espressione, avuto diversi contrasti con la Russia e ottenuto la carica a seguito di elezioni non poco sospette – ha preferito il proprio presidente “democraticamente eletto” ad un estrema destra di stampo militare. Con Erdogan l’economia funzionava, ma con l’esercito al potere? Meglio non rischiare. Lo stesso Capo di Stato turco, da tempo – nonostante si dica passi armi sottobanco all’ISIS – aveva iniziato un procedimento di epurazione sia della Polizia che dei servizi segreti, destituendo ogni uomo che nutrisse il minimo sentimento contrario alla Repubblica. Fondamentale è stato pure il distacco totale da quanto stava accadendo da parte dei maggiori leader mondiali: ammettendo avessero vinto i golpisti, la NATO avrebbe subito proceduto alle operazioni di “restauro” dell’ordine democratico, per riconsegnare in mano al tanto discusso presidente il potere della Nazione turca.
Francesco Raguni
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