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Sportwashing dei Paesi del Medio Oriente da F1 e MotoGP ai mondiali: ombre sui diritti dei lavoratori
31 Marzo 2022
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Sportwashing dei Paesi del Medio Oriente da F1 e MotoGP ai mondiali: ombre sui diritti dei lavoratori

Home » Voci di Sport » Calcio » Sportwashing dei Paesi del Medio Oriente da F1 e MotoGP ai mondiali: ombre sui diritti dei lavoratori
3 minuti (tempo di lettura)

Il fenomeno dello Sportwashing

C’é chi parla di sportwashing, ovvero la prassi di “pulirsi la coscienza” da parte di alcuni Paesi attraverso l’organizzazione di grandi competizioni sportive attorno alle quali si crea inevitabilmente una bolla mediatica.

Il fenomeno dello sportwashing in realtà non é nuovo. Si pensi ad esempio al campionato di calcio giocato in Argentina nel 1978 in contemporanea alla tragedia dei desaparecidos o la Coppa Davis giocata nel 1976 nel Cile del dittatore Pinochet.

Negli ultimi anni questa pratica é stata maggiormente intrapresa dai Paesi del Medio Oriente come Qatar e Arabia Saudita.

Di fronte alla cancellazione del Gran Premio di Russia e l’esclusione della Federazione Russa dai mondiali di calcio 2022 ci si chiede come mai l’organizzazione di eventi in Paesi che calpestano ugualmente i diritti umani sia comunque concessa.

La strategia dei Paesi del Golfo

Dunque, gli Stati del Golfo stanno lavorando molto per offrire agli occhi dell’opinione pubblica internazionale un’immagine positiva, di sviluppo e benessere. Questa appare plastica sui social, in particolare Instagram.  Lo stesso senatore Matteo Renzi ha parlato di un “neo Rinascimento” durante la sua visita nel Paese guidato da Bin Salman.

Quest’ultimo, una volta salito al potere nel 2017, ha spinto L’Arabia Saudita verso un processo di modernizzazione. Il giovane principe ereditario però non ha impedito la repressione, in particolare verso gli oppositori. (esecuzioni capitali)

Tra le tante campagne promozionali rientrano anche le varie gare organizzate che permettono di salire sul palcoscenico internazionale.

La Kafala in Arabia Saudita

Andando oltre però  l’apparente progresso voluto dallo sportwashing, quali sono le vere condizioni di chi lavora e contribuisce alla costruzione delle infrastrutture incentivate? Che tipo di leggi regolamentano il lavoro? Quali sono quelle che tutelano i diritti dei lavoratori?

Nella monarchia saudita vige la “Kafala“; un istituto giuridico che prevede un legame tra il lavoratore e il proprio “kafeel”. Quest’ultimo é uno sponsor scelto tra agenzia del lavoro, imprese o singoli, che invece di affiancare lo stesso finisce per avere un controllo totale sulle sue libertà.

Regola di fatto il reclutamento dei lavoratori stranieri impiegati, perlopiù provenienti da Filippine, Bangladesh, India Pakistan e il controllo dei loro visti.

I lavoratori, al soldo dei “padroni” locali subiscono spesso violenze fisiche e sessuali e sono vittime di una vera e propria segregazione.

Quasi un terzo dei 34 milioni di persone che abitavano nel 2021 nella monarchia erano lavoratori migranti il cui status giuridico nel Paese era controllato dal datore di lavoro.

La pista di Gedda

Le organizzazioni per i diritti umani hanno fatto un parallelismo tra questo istituto e la schiavitù moderna.

Era stato promesso di allentare le restrizioni previste dal sistema della Kafala ma a quanto pare ancora non viene praticata.

Per la costruzione delle grandi opere, tra le ultime la pista che ha ospitato il Gran Premio di Gedda sono stati reclutati tantissimi lavoratori stranieri, le cui condizioni di lavoro sono inenarrabili. Questi hanno lavorato giorno e notte per pochi euro l’ora. Molte sarebbero state le vittime non dichiarate, date anche le condizioni igienico-sanitarie e quelle di sicurezza.

Gedda é una città portuale che si affaccia sul Mar Rosso e proprio durante le prove della gara é stata colpita da un missile. L’attacco é partito dai ribelli Huthi dello Yemen e si inquadra all’interno del conflitto che da anni l’Arabia Saudita, sostenuta dagli Usa svolge in territorio yemenita.

Il Qatar e “i Mondiali della vergogna”: l’apice dello sportwashing

Anche il Qatar, emirato gestito dalla famiglia reale Al Thani ha impiegato e sta impiegando numerosi cittadini stranieri per la creazione delle infrastrutture utili ad ospitare il prossimo mondiale di calcio questo inverno. Tra queste spicca lo stadio Al Thumama.

Ad aprire il dibattito sulle condizioni lavorative é stata un’inchiesta del Guardian. Questa ha reso noti alcuni numeri tra i quali spiccano le morti sospette dei lavoratori provenienti da Pakistan, Nepal, India, Sri Lanka.

Alcune delle squadre protagoniste come Olanda, Belgio, Danimarca, Germania e Norvegia hanno deciso di compiere gesti simbolici in difesa dei diritti umani indossando, prima del fischio d’inizio delle partite di qualificazione magliette con slogan.

In Norvegia si é addirittura portata avanti una mozione da votare che chiedeva il boicottaggio dei mondiali qatarioti. L’iniziativa é stata però bocciata.

Amnesty International ha svolto indagini, evidenziando una mancata applicazione delle leggi di protezione dei lavoratori impegnati nelle ore di caldo estremo. Proprio queste ragioni, insieme ad altre hanno provocato diverse morti, su cui aleggia poca trasparenza.

E’ stato chiamato “il Mondiale della vergogna”.

Occasione di sviluppo o propaganda?

Gli organizzatori affermano che favorire un evento del genere in Qatar sia utile al suo progresso, mentre altri sostengono che politica estera e calcio dovrebbero rimanere separati.

Più che di politica estera il dibattito é incentrato sulla difesa dei diritti umani in tutti i contesti e sugli interessi economici reciproci che giocano un ruolo fondamentale nella scelta delle Nazioni ospitanti.

Più che il valore dello sport e della competizione sportiva si finisce per promuovere un certo tipo di “sviluppo” incrementato ai danni dei diritti che ormai diamo per scontati e per cui tanto abbiamo lottato.

Una volta spente le luci degli eventi cosa succede? Il Paese ne esce migliorato? Molto spesso le disuguaglianze rimangono, solo che scema anche l’attenzione dei media su queste.

Dovrebbero essere un momento di scambio, di confronto pacifico, invece il clima in questi Paesi é inevitabilmente pesante e cupo.

Margherita Mantione

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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