Nel mondo in cui viviamo i casi di violenza sessuale sono, purtroppo, all’ordine del giorno. Spesso le vittime, oltre ad aver subito un’indescrivibile umiliazione, si sentono giudicate per gli abiti indossati. L’Università del Kansas ha organizzato una mostra proprio per dimostrare che l’abbigliamento non può essere, neanche lontanamente, una giustificazione all’abuso.
Ogni volta che si diffonde la notizia di una violenza sessuale c’è qualcuno che, immancabilmente, fa un riferimento all’abbigliamento della vittima. I genitori, i parenti e gli amici si sentono chiedere «Ma com’era vestita?» oppure «Vestita così se l’è cercata!». Accade spesso, quindi, che la vittima dell’abuso si senta in parte responsabile per l’accaduto, a causa del giudizio malizioso o fuori luogo della gente. Subire una violenza sessuale per poi sentirsi sotto accusa non dovrebbe essere possibile. Questa mentalità piena di pregiudizi sulla sessualità e sul corpo femminile è diffusa in tutto il mondo. Tantissime persone giustificano l’atto violento come conseguenza di una provocazione, dovuta ad una maglietta troppo scollata o ad una minigonna.
Partendo dalla considerazione che la violenza non è mai causata dal guardaroba di chi la subisce, l’Università del Kansas ha organizzato, presso la propria sede, una mostra molto particolare. L’idea è stata della direttrice del Centro per la prevenzione e formazione sessuale, Jen Brockman. What were you wearing? è un’esposizione composta da diciotto capi d’abbigliamento. Ad ogni abito è affiancata una targa che racconta la storia di violenza ad essa collegata e si tratta esclusivamente di storie vere. Le testimonianze sono state raccolte dagli studenti del Midwest, come anche gli indumenti esibiti. L’installazione sta facendo il giro del web, diventerà anche virtuale poiché resterà visibile su un sito ad essa dedicato.
Sono stati esposti pantaloni, maglioni, magliette, jeans, vestiti. Si tratta di capi assolutamente quotidiani e normali che si possono trovare in ogni casa, nell’armadio di ogni persona. Il messaggio che l’ateneo del Kansas vuole far passare è semplice, ma molto meno scontato di quanto si possa pensare. «Vogliamo che le persone possano vedere se stesse riflesse nelle storie, negli abiti», ha raccontato l’ideatrice. L’obiettivo della mostra è quello di far comprendere alle vittime che non è stata colpa loro e il progetto sta dando per adesso ottimi risultati. Davanti a uno stupro i riflettori devono puntare la luce sul carnefice, non sulla vittima; sulle azioni di chi prende quel che vuole senza consenso, non su chi è stato costretto ad assecondarlo.
Sara Tonelli
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