Pochi registi italiani si mettono a nudo come Nanni Moretti nello spiegare le proprie intenzioni nel fare cinema ripensando al tragitto creativo e analizzandone i risultati. Il cinema di Moretti nasce da forti motivazioni sociali e morali. Con i suoi film, infatti, egli vuole dare la parola agli ultimi, a quelli che non hanno voce nella società contemporanea, la quale occulta la miseria con lo strepitio e il lucchichio della ricchezza e dell’apparenza. È in questa situazione disperante che il regista sente la necessità etica di rifondare lo sguardo del cinema sull’uomo, su un uomo senza orizzonti. In Mia madre, ultima sua pellicola in concorso al 68esimo Festival di Cannes, i personaggi ci mostrano quasi esclusivamente volto e corpo, quasi che il dramma si manifestasse nell’incapacità e nell’impossibilità di vedere fuori di sé. La drammaticità consiste nella mancata relazione con un territorio e una comunità inesistenti.
Margherita (Margherita Buy), una regista di successo che sta lavorando a un film con protagonista un famoso attore americano, non ha consapevolezza della propria condizione e sente i bisogni lavorativi come primari, né tanto meno è capace di articolare un discorso di identità e rivendicazioni. Margherita è il prototipo di un nuovo guerriero. La donna si è da poco separata dal marito, Vittorio (Enrico Ianniello), ed è anche alle prese con i problemi adolescenziali della figlia Livia (Beatrice Mancini). Inoltre, insieme al fratello Giovanni (Nanni Moretti) deve accudire la madre Ada (Giulia Lazzarini), gravemente malata. In Margherita vi è l’urgenza dell’agire. Proprio in virtù del suo essere fuori da ogni schema, la guerra della donna contro i suoi simili diventa strumento di denuncia e di riflessione. In questo senso, Mia madre è il film più estremo e compiuto degli ultimi anni, privo di barriere e di distanze, quasi privo di parole e carico di umori, capace di riportare l’uomo alla sua origine. Margherita, Giovanni, Vittorio, Ada e Beatrice si muovono in uno spazio destrutturato, fra città anonime che oramai si assomigliano tutte, assurte alla dimensione sociologica dei “non-luoghi” e dello spazio “aperto”.
In ogni produzione di Moretti la fase dell’ideazione si accompagna alla ricerca accanita di una necessità estetica che la giustifichi. Mai come in Moretti una forma archetipa (desunta dall’osservazione della realtà) che struttura il racconto, un’immagine originaria e l’ossessione di quest’ultima il cui senso appare misterioso sono il film. Margherita viene vista come una persona in lotta contro il mondo intero, dando l’impressione allo spettatore di seguire “un soldato da guerra”. Alcune immagini si impongono inconsciamente ai registi durante la lavorazione dei film ed assumono progressivamente un’importanza centrale. Ma, se vogliamo andare più a fondo, rinunciando ai “significati” nella loro dimensione socio-pedagogica e tentando di cogliere un “senso” più profondo in questo rapporto ambivalente fra gli individui, sembra piuttosto che i film di Moretti ci dicano che c’è una parte di socialità e soggettività in ognuno di noi. L’uomo e le sue contraddizioni sono il segreto imperscrutabile, ingiudicabile, motore e fine del cinema di Moretti. Ecco allora che l’uso del fuori-campo (nelle sue molteplici manifestazioni) non è puro manierismo stilistico impiegato per dichiarare la propria cifra autoriale, ma un modo per estrarre della realtà osservata e messa in scena, con la dichiarata presenza della macchina da presa, un’intima istanza comunicativa, il suo segreto.
Enrico Riccardo Montone
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