Dal 1948 a oggi, l’Italia ha collezionato 27 nomination e vinto 13 statuette, l’ultima grazie al capolavoro di Roberto Benigni La vita è bella (1999). Un risultato che pone il Bel Paese in cima alla classifica dei vincitori della categoria, davanti per un soffio rispetto alla Francia, la quale ci batte, invece, sul fronte nomination, nonostante i nostri numerosi titoli storici, fra cui Ladri di biciclette, La strada, 8½, Amarcord e il già citato La vita è bella. L’ultimo film italiano aggiudicatario di un premio della stampa estera a Hollywood era stato Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, nel 1990, mentre il 12 gennaio di quest’anno ha vinto il Golden Globe come miglior film straniero un nuovo film italiano: La grande bellezza, del regista napoletano Paolo Sorrentino, noto per successi come Il divo, film biografico sul senatore a vita Giulio Andreotti, e This Must Be the Place con Sean Penn.
La grande bellezza, che parte dal ricordo universale de La dolce vita di Federico Fellini e ne crea una versione aggiornata rispetti ai nostri tempi e ai nostri difetti, rappresenta un’Italia immediatamente riconoscibile, classificabile e archiviabile in quello spazio minimo che è il cassetto mnemonico dedicato dallo spettatore medio americano al cinema italiano. Si tratta di una storia che fotografa la grande bellezza di Roma con il suo caratteristico colore ocra, le sue luci, il suo languore mediterraneo, la sua opulenza millenaria, le sue rovine antiche e le sue derive mistiche, andando incontro all’aspettativa di chi magari non ha mai visitato la capitale, ma la sogna esattamente così. La pellicola rappresenta uno spaccato di vita contemporanea, articolata in maniera tale che lo spettatore si ponga delle domande sul senso della vita, del piacere e della felicità. Infatti, il regista è riuscito a raccontare, anche se non intenzionalmente, la crisi esistenziale e il sentimento di smarrimento sociale e morale percepiti dall’uomo moderno, montando un carnevale escheriano mai realmente tragico, ma miseramente grottesco.
Encomiabile è l’interpretazione di Toni Servillo, a cui si deve una recitazione meravigliosamente sopra le righe. Il suo Jap Gambardella è memorabile: vive nella piena consapevolezza di ciò che egli è e di ciò che il proprio mondo rappresenta, accettando lucidamente ciò che questo tipo di esistenza comporta, seppure concedendosi degli sprazzi di umanità, tra affetti trascorsi e attuali, fino alla rivelazione conclusiva della “Grande Bellezza”, ottenuta grazie al ritorno concreto alle proprie origini, spesso ricordate e rivissute attraverso l’immaginazione. Per il personaggio, questo contatto con il passato è un punto da cui ripartire, una realtà incontaminata che funge da ancora di salvezza per il presente, una Roma della quale siamo orfani da quando non c’è più Fellini: onirica, ma allo stesso tempo amorale, avvolta in un pulviscolo fantasmagorico, attraversata dal biondo Tevere, popolata di statue, di mura, di chiese, fantasmi e di nostalgia.
La grande bellezza, pertanto, sembra essere un film “geologico”, come se simboleggiasse l’affioramento improvviso di una stratificazione costituita da tanti livelli sovrapposti e confusi; allo stesso modo, sembra essere un film “archeologico”, come se incarnasse il ritrovamento di un’antica stanza romana abitata da patrizi e da vestali. Sembra inoltre essere un film “senile”, come se descrivesse la lettura postuma del diario di un vecchio dandy che ha vissuto nella Roma degli anni duemila in un’epoca ormai trascorsa. Sembra perfino essere un film popolato dai fantasmi usciti dalla penna di uno scrittore fin troppo compiaciuto della propria arte e del proprio mestiere e, infine, sembra essere la risposta erudita e d’autore al film-cartolina To Rome With Love di Woody Allen, nonché un contraltare e una vendetta aventi forse qualche traccia di troppo dell’impeto trascendentale di un “cattivo maestro” quale Terrence Malick.
Probabilmente grazie a queste caratteristiche, il regista ce l’ha fatta: ha superato meritatamente il primo importante gradino della scalata all’Oscar. Non sempre il Golden Globe anticipa l’Academy, perché la giuria del primo Premio è composta da giornalisti stranieri negli Stati Uniti, che potrebbero avere sensibilità diverse rispetto ai membri del secondo, motivo per cui il verdetto delle giurie non sempre coincide. Tuttavia, il richiamo a La dolce vita potrebbe giocare a favore di Sorrentino e costituire ugualmente l’anticamera dell’Oscar nella categoria del miglior film straniero.
Enrico Riccardo Montone
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