Foxcatcher, ovvero una tragedia statunitense. Dopo Capote (2005) e Moneyball (2011), Bennett Miller torna a raccontare quell’America piatta e desolata, nei paesaggi e nei valori, che trova il suo senso in un dramma che ha radici profonde nella società. Basato su un tragico fatto di cronaca, Foxcatcher racconta la storia di due fratelli, Dave (Mark Ruffalo) e Mark Schultz (Channing Tatum), campioni olimpionici di wrestling nel 1984, e del loro rapporto con il miliardario John du Pont (Steve Carell), erede di un impero chimico, figlio dell’era reaganiana, teatro del film. Le premesse della tragedia ci sono tutte – amore e rivalità tra fratelli, rapporto malato con una figura paterna fiacca e corrotta, desiderio di vittoria che straripa nell’ossessione – ma è nello svolgimento del film che questi e altri elementi diventano le maglie di un dramma umano e sociale, costruito da Miller e dai suoi sceneggiatori con sottili elementi psicologici e con chiari simbolismi riferiti alle responsabilità della società statunitense, volta al successo e al denaro ad ogni costo, a una sorta di machismo che sconfina nel ridicolo. Molta stampa statunitense non ha apprezzato questo secondo aspetto, non per patriottismo, ma perché l’ha trovato esplicito e goffo. Ma a un occhio europeo quest’equilibrio tra storia privata e storia statunitense risulta ben ponderato e profondo, anzi inquadra la storia dei fratelli Schultz in una cornice universale e politica che ha come risultato una fondata riflessione sul potere, sia quello interno ai rapporti familiari, sia a quelli economici e sociali.
Se una parte del merito va alla scrittura, l’altra parte va a un montaggio che non teme di lasciare lunghe sequenze di indugio e sospensione, con un passo lento che va dritto verso un finale degno di tragedia. La gran parte del successo va ascritta però ai tre interpreti e alla direzione di Miller, premiato per la miglior regia al Festival di Cannes 2014. Il film comincia e finisce con Mark, un ragazzo debole, condizionabile, insicuro interpretato da Channing Tatum che offre qui la sua migliore interpretazione, seppure in alcuni momenti tenda a strafare, avendo a che fare con un personaggio niente affatto facile per i cambiamenti di passo e di umore che attraversa nel film.
Mark è in costante, serrata relazione, oltre che con du Pont (che lo “assume” per formare un team olimpico vincente), con il fratello maggiore Dave, interpretato da un Mark Ruffalo semplicemente eccellente: affettuoso e comprensivo ma anche il più forte dei due, quello con più buon senso, quello che ci piace dall’inizio alla fine, da quell’abbraccio iniziale mentre lotta con il fratello nella vecchia palestra. E infine Steve Carell nei panni di du Pont, perfetto dietro ai lineamenti truccati e rifatti per trarne un personaggio sgradevole nella sua apparente mitezza, fiacco nella morale, spietato nella determinazione a vincere, sotto gli occhi di una madre (Vanessa Redgrave) in costante disapprovazione. Una figura grottesca da cui non togliamo gli occhi di dosso, tanto patetica quanto terribile.
Enrico Riccardo Montone
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