Regole ferree stanno alla base del cinema vuoto e rigoroso di Paul Thomas Anderson. Semplicità – cioè emancipazione dal superfluo – da tutto ciò che non rientra nel vero territorio del cinema e che deriva da altre esperienze, soprattutto quella legata a una conoscenza enciclopedica della tecnica e della cultura cinematografica, acquisita guardando migliaia di film in video. Niente drammaturgia, almeno in senso classico; semplicità di racconto; soggetti puramente cinematografici e ricerca tecnica per tradurli visivamente, in modo che diventino non più fabbrica di storie, bensì di segni.
Il regista statunitense si sofferma su “come” raccontare più che sul “cosa”. Il suo cinema si ispira allo statuto del racconto verosimile, ma il rapporto che si instaura tra regista e mondo esterno è molto più articolato di quanto possa sembrare. Piuttosto che parlare di verosimile, è maggiormente corretta la definizione di “vero ricreato”, che non rimanda solo a una lettura politico-sociale della realtà, ma anche all’iperrealismo. Il cinema di Paul Thomas Anderson nasce, infatti, da un paradosso. Nonostante la sua pienezza stilistica, il suo procedere per accumulo di segni, di traiettorie e di suoni si costruisce a partire da un’assenza, da una mancanza fondamentale.
L’ultima opera di Anderson, Vizio di forma (Inherent Vice), al cinema dal 26 febbraio, appare come una storia curiosamente tipica del giallo mescolato alla commedia, alla drammaticità e a tratti al grottesco. Si procede per accumuli di dettagli o per singoli blocchi di racconto, spesso dedicati a un unico personaggio, così da innescare un insieme di trame e sottotrame, di deviazioni e di ritorni, di stentati raccordi, in un dedalo che trasforma gli spettatori in prigionieri. Sembra di trovarsi dentro un affresco simile a quello di Magnolia (1999), drammatica storia composta da ben nove episodi, separati ma interconnessi, tutti intrecciati durante un unico giorno nella San Fernando Valley, a Los Angeles.
La pellicola è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 2009 di Thomas Pynchon. Protagonista è un detective, Larry “Doc” Sportello (interpretato da Joaquin Phoenix), con il vizio dell’alcool e dei modi poco ortodossi. Siamo nella Los Angeles di fine anni ’60. Larry si vede chiedere aiuto da una ex, Shasta (Katherine Waterston). La donna vuole, infatti, evitare che l’uomo con cui ha una relazione – il miliardario Mickey Wolfmann (Eric Roberts) – sposato con un’altra donna, venga internato. Doc accetta di aiutarla, intraprendendo a insaputa della ex fiamma un cammino che lo porta ad incontrare una serie di stravaganti personaggi e a trovarsi in bizzarre situazioni.
Sono due i piani di lettura applicabili alla molteplicità psichedelica delle interpretazioni del cast: quello dell’Uno e quello del Tutto, in ordine sparso, come vuole il cinema di Paul Thomas Anderson da Ubriaco d’amore (2009) in poi. Il noir e la sua lunga discendenza di riferimenti riflessivi diviene, così, un’avvincente esca per catturare l’interesse del pubblico e aiutarlo a immedesimarsi in Doc Sportello. La telecamera è lasciata libera di veicolare una fortissima impressione di realtà, con un’attenzione smisurata alle azioni più insignificanti, nella registrazione maniacale di ogni rumore prodotto; l’operatore rimane nascosto dietro gli oggetti e letteralmente si annulla. Lo stile, inoltre, è al servizio del messaggio. La macchina da presa serve a una sorta di “pedinamento”, finalizzato al meccanismo di identificazione che, a propria volta, è utile a farci sprofondare in una realtà di deprivazione sociale e culturale.
Il noir presentato nell’ultima pellicola del régisseur rappresenta una delle maniere in cui si può creare un segreto per gli spettatori rimanendo fedeli al romanzo di Pynchon: tutto è orchestrato da Anderson come nessun altro oggi saprebbe fare, con un tocco alla Robert Altman non solo per i riferimenti al suo Il lungo addio (1973). “Altmaniana”, infatti, è anche la capacità di far muovere un’infinità di personaggi maggiori e minori e di collocarli in una sorta di arazzo fiammingo in forma di cinema, che comprende ricchi, potenti, miserabili, cialtroni, folli, carnefici e vittime. Il film ha ricevuto due nomination agli Oscar 2015 come miglior sceneggiatura originale e migliori costumi (a cura di Mark Bridges).
Enrico Riccardo Montone
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