La rivolta della prigione di Topo Chico di Monterrey, in Messico, apre ancora una volta il dibattito sulle condizioni delle carceri nel mondo. Nelle americhe, il dato sul sovraffollamento è preoccupante, così come in Italia: segno che, forse, ci si dimentica di avere a che fare con persone.
L’inferno, di solito, può essere descritto in diversi modi: in molti lo raffigurano come un enorme incendio, altri come una dimensione caratterizzata dalla presenza di mostri. Altri ancora come un carcere: e non è mica un caso, basti pensare a ciò che è avvenuto negli scorsi giorni nella prigione di Topo Chico di Monterrey, in Messico, dove più di sessanta persone hanno perso la vita dopo il tentativo di alcuni reclusi di ammutinare le guardie e fuggire.
Gli eventi, avvenuti nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, hanno visto due diversi gruppi scontrarsi tra loro in un’ala della struttura: da un lato dei membri dell’organizzazione di narcotrafficanti del Cartello del Golfo, guidati da Jorge Iván Hernández Cantú (detto El Credo), dall’altro quello dei Los Zetas, guidati da Juan Pedro Saldívar Farías (El Z 27). E lì c’è stato poco da fare: le guardie non sono riuscite a sedare gli animi ed è stato necessario l’intervento dell’esercito. Una vera e propria rivolta.
Una rivolta che non può e non deve rimanere un caso isolato: perché? Perché non è la prima volta che accade: segno che qualcosa non va per il verso giusto. Tra i morti vi sono reclusi, guardie e funzionari del carcere: ma in particolare “persone”, indipendentemente dalla divisa e dal numero di matricola. Persone che sì, è vero, hanno commesso reati, ma che sono stati trattati come galline in un pollaio, nessuno escluso: e al di là del Paese e delle leggi, a vacillare è l’intero sistema carcerario, pieno di falle e difetti.
Nel 2012, infatti, era stata la volta di una prigione di Apodaca, sempre nello Stato di Nuevo Leon: evento in cui morirono 44 carcerati. Nel 2013, invece, furono 12 i detenuti a perdere la vita nel carcere di La Pila, nello stato di San Luis Potosí. E nello stesso anno, la Commissione Nazionale per i Diritti Umani ha pubblicato un rapporto sulle 101 carceri più affollate del Paese, sottolineando che ben 65 erano gestire dai carcerati e non dalle autorità: più del 60%. Dati che parlano da soli: per questo motivo non si può rimanere indifferenti e non si può guardare alla rivolta di Topo Chico come ad una tragedia isolata.
In Messico, i detenuti nelle prigioni sono circa 250 mila, con un sovraffollamento medio del 40%: e quello dello smaltimento è stato uno dei punti forti del nuovo governatore del Nuevo Leon, Jaime Heliodoro Rodríguez Calderón, detto El Bronco, che ha assunto il potere nello scorso ottobre. Ridurre il numero dei reclusi, a partire proprio dal carcere di Monterrey, caratterizzato da una sovrappopolazione del 40% in quanto a unità maschili, e del 65% per quel che riguarda le unità femminili. Ma, allora, perché non è stato fatto nulla per risolvere il problema?
Altro discorso scomodo è quello relativo alla criminalità organizzata, dal quale deriva gran parte del potere gestionale: naturalmente in modo oscuro. D’altra parte è la storia che lo insegna: il carcere è, per molti versi, il luogo più sicuro per un criminale, quasi fosse una vera e propria base operativa. E nel resto del mondo? Anche: negli Stati Uniti, ad esempio, celebri sono i casi di rivolte nelle prigioni, causate anche dalle stesse guardie, con trattamenti ai limiti dell’umano. E in Italia? In Italia il sistema carcerario è deficitario: è vero che i casi di sovraffollamento diminuiscono nel corso degli anni, ma lo stato delle strutture peggiora in maniera graduale.
L’ultimo conteggio ufficiale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, fornito dal Ministero della Giustizia, parla di 52 mila persone detenute nei 195 istituti del territorio italiano, rispetto ai 49 mila posti effettivamente disponibili. Il dato, però, è destinato a peggiorare, ma è soprattutto la condizione dei reclusi a destare preoccupazione: eclatante, a riguardo, il “caso Cucchi”. Ma quel che dovrebbe sorprendere non sono tanto i numeri, quanto il fatto che lì dentro, al di là delle mostruosità commesse, ci sono persone. Forse Dante aveva ragione: «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate!». Questo è l’inferno: quello vero.
Antonio Torrisi
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