Il carcere, nella sua dimensione detentiva e redentiva, accoglie al suo interno centinaia di detenuti di fede musulmana, i quali spesso vengono guidati da altri detenuti nell’adempimento della funzione religiosa, con il rischio concreto che si divulghi il verbo della jihād proprio dietro le sbarre. Uno scenario inquietante che di certo non lascerà dormire sogni tranquilli ai nostri servizi segreti e funzionari di Polizia penitenziaria, impegnati quotidianamente e costantemente nell’attività di monitoraggio, che è stata sensibilmente rafforzata dalle stanze del Viminale dopo la recente scia di sangue e di orrori che ha riguardato mezza Europa. L’idea che soggetti reclusi all’interno dell’istituti penitenziari italiani possano abbracciare segretamente la causa dell’Islam più radicale esiste e sicuramente non va lasciata al caso. Pertanto, si ritiene necessario approfondire la delicata questione del proselitismo all’interno delle carceri in modo da fornire adeguati strumenti preventivi a funzionari di Polizia penitenziaria, educatori e assistenti sociali, per i quali la conoscenza del soggetto recluso rappresenta la premessa ideale per adempiere correttamente allo svolgimento dei compiti istituzionali, già di per se difficili, che sono chiamati a svolgere.
Nelle strutture si assiste al processo di radicalizzazione di tanti detenuti comuni, in particolar modo giovani e/o di provenienza nordafricana, il cui vissuto il più delle volte non è segnato da un profondo rapporto con la religione musulmana. La progressiva trasformazione in soggetti estremisti avviene sotto lo sguardo “attento” di altri detenuti radicalizzati più anziani ed esperti, in un rapporto di sudditanza psicologica a danno di individui facilmente assoggettabili. Come vanno dicendo ormai da qualche tempo diversi mediatori culturali, nel clima di disorientamento generale che un detenuto – di fede musulmana – incontra entrando in carcere, l’avvicinamento alla religione rappresenta l’unica ancora di salvezza in grado di fornire quell’equilibrio mentale da costruire in una dimensione detentiva. Va detto che occorre prestare la dovuta attenzione al fenomeno, in quanto possibili sentimenti di rabbia ed ingiustizia possono sfociare in casi di proselitismo, inteso in altri termini anche come risultato di un’esclusione di tipo sociale, di cui il carcere rappresenta l’anello di congiunzione per eccellenza. Per questo motivo bisogna prendere coscienza del problema e “aggredirlo” dall’interno attraverso una strategia condivisa a livello istituzionale. In quest’ottica la folta comunità islamica presente nel nostro Paese può giocare un duplice ruolo: se da un lato la produzione di modelli integrativi vincenti sta alla base di un dialogo costruttivo tra le parti, dall’altro vi è il rischio che il proselitismo cresca laddove si annida il seme della discriminazione e dell’indifferenza, sforzandosi nel superare preesistenti barriere linguistiche, culturali e religiose.
Gabriele Mirabella
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