Il Teatro Greco di Siracusa si prepara alla cinquantottesima stagione delle rappresentazioni classiche dell’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico). Dall’11 maggio al 2 luglio 2023, infatti, il teatro tornerà, come lo è stato in passato, luogo di racconti, di incontri e di spettacolo per la comunità. Da mesi, centinaia di addetti ai lavori – tra attori, registi, traduttori, costumisti, scenografi (e altro ancora) – sono alle prese con il “titanico” compito di portare in scena e far rivivere storie antiche, ma mai vecchie e mai dimenticate.
Quest’anno saranno rappresentate due tragedie (una di Eschilo, Prometeo incatenato, e una di Euripide, Medea) e una commedia, La pace di Aristofane. A queste tre rappresentazioni, si aggiunge quella dell’Ulisse, l’ultima Odissea, con un libretto tratto da Omero.
La regia della tragedia eschilea è di Leo Muscato e il testo è stato tradotto da Roberto Vecchioni, noto cantante, poeta e professore. L’opera, come indica il titolo stesso, è dedicata a Prometeo. Il protagonista si trova incatenato ai confini della terra, in Scizia: è questa la punizione per aver fornito agli uomini il fuoco e il suo aiuto contro il volere di Zeus. Il dramma è statico in quanto Prometeo è sempre presente sulla scena, incatenato alla rupe del suo supplizio. Si presentano, però, davanti a lui diversi personaggi: è interessante ricordare che, nell’Atene del V secolo, per l’ingresso di questi ultimi erano state ideate complesse macchine sceniche, alcune delle quali permettevano persino la simulazione del volo. Davanti a Prometeo appaiono, in ordine, le Oceanine, loro padre Oceano e Io, fanciulla trasformata in giovenca a cui Prometeo predice il futuro della stirpe.
Prometeo annuncia di essere a conoscenza di un segreto, necessario a Zeus per poter continuare a mantenere il proprio potere divino. Ma, dato che il protagonista non cede ai tentativi di Hermes di fargli sputare il rospo, alla fine viene fatto sprofondare, con un terremoto, nel Tartaro e in questo modo si chiude la tragedia.
Quella di Medea è una storia forte, potente, fatta di sangue, di affetto e di passione. La regia è di Federico Tiezzi e la traduzione di Massimo Fusillo.
Celeberrima è la storia di questa donna tradita e lacerata dal dolore. Medea, principessa della Colchide, ha lasciato la propria terra e la propria famiglia per seguire l’eroe Giasone, dopo averlo aiutato a impossessarsi del vello d’oro. Giunti a Corinto, però, Giasone la abbandona, insieme ai due bambini che avevano avuto insieme, per sposarsi con Glauce, figlia del re Creonte. Questo l’antefatto, narrato nel prologo dalla nutrice di Medea. Quest’ultima, invece, si presenta sulla scena straziata dal dolore e al contempo salda nel proprio proposito di vendetta. Il suo scopo, ancora confuso e non ben delineato nella prima parte del dramma, si fa concreto nella seconda. Dapprima Medea invierà, attraverso i propri figli, un dono avvelenato a Glauce, causando la sua morte e quella di Creonte. Poi, con estrema sofferenza, troverà la forza di uccidere i suoi stessi figli e di negare a Giasone persino la consolazione della loro sepoltura; sacrifica se stessa e la vita dei propri figli per infliggere al vecchio amante l’unica punizione che potesse davvero ferirlo.
La rappresentazione di questa commedia vede Daniele Salvo nella veste di regista e Nicola Cadoni in quella di traduttore dell’opera aristofanea.
Il coro è composto da contadini attici e il protagonista è Trigeo – nome parlante che vuol dire “Vendemmiatore”. Costui, stanco della guerra che ormai da tempo tormenta le città della Grecia, decide di recarsi sull’Olimpo su un enorme scarabeo: vuole, infatti, chiedere a Zeus la sospensione di ogni conflitto. Ma gli dei, inorriditi da quella stessa guerra che Trigeo voleva far cessare, hanno già abbandonato l’Olimpo: al loro posto c’è soltanto Polemos (“Guerra”), che ha, tra le altre cose, imprigionato Pace in una caverna.
Alla fine, Trigeo e il coro riescono a liberare Pace e con essa anche Opora (che vuol dire “Abbondanza”) e Theoria (“Festa”). La commedia si chiude con le nozze tra il protagonista e Opora.
Perché sentiamo la necessità di rappresentare l’antico per capire il presente?
Questa domanda è forse fondamentale per comprendere il senso della rappresentazione moderna del dramma antico, nella sua forma originale o rivisitata da registri e piegata a parlare degli eventi della contemporaneità. Tuttavia, è destinata a non avere una risposta, o almeno non una sola risposta. Possiamo, ad esempio, ipotizzare che la necessità della rappresentazioni classiche nasca dal fatto che vedere i temi della nostra contemporaneità riflessi in ambientazioni e in tempi differenti ci permetta di assolutizzarli e di cogliere l’essenza, i sentimenti, i pensieri di ogni uomo, in ogni tempo e in ogni dove. Chiaramente molte altre possono essere le motivazioni alla base di questa necessità: rintracciarle tutte o cercare di trovare una risposta univoca sarebbe ovviamente impossibile. Quello che conta è non negare la validità della domanda e continuare a porsela, evitando, in questo modo, che le rappresentazioni classiche diventino una semplice e sterile abitudine, esperienza privilegiata dei soli acculturati.
Carla Migliorisi
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