Si inizia con il timore di cadere nel tentativo di muovere i primi passi, si continua con la sensazione di panico nell’immaginare di non trovare nessuno all’uscita dall’asilo, si prosegue con il terrore nei confronti di un dentista pronto a staccarci un dente. La paura è un’emozione che indistintamente proviamo da sempre. Se crescendo, poi, la maggior parte delle insicurezze ce le lasciamo alle spalle insieme agli anni, altre nuove ci condizionano o crescono con noi. Molte sembrano appartenere al corredo sensoriale di ciascuno: dalla preoccupazione di morire e di perdere qualcuno o qualcosa, a quella di «non riuscire più a sentire niente», per riportare un testo di Lorenzo Cherubini. Altre angosce, però, sono del tutto singolari e possono apparire quasi stravaganti a chi ha la fortuna di non soffrine: dalla xantofobia (la fobia del colore giallo) alla fifa persistente e ingiustificata dell’essere fissato (oftalmofobia/scoptofobia) o ancora alla tripofobia, che provoca attacchi di panico quando ci si trova di fronte a dei buchi.
Alcuni spaventi, come ad esempio quello che in certuni può provocare l’incontro di alcuni animali, sono facilmente evitabili. Le cose si complicano quando la paura ha ripercussioni sul proprio stile di vita, tendendo ad essere incontrollabile fino a diventare addirittura invalidante: è allora che il soggetto non deve esimersi dal chiedere aiuto. Sembrerebbe, infatti, che il 50% dei pazienti arrivi in ritardo alla diagnosi. Niente paura della paura, però: tenendo conto del vissuto del singolo interessato è possibile, infatti, superare anche i casi più estremi.
Stando agli autori di un neo-pubblicato studio sull’American Journal of Psychiatry, invero, da ansia e paure derivano da un lato processi inconsapevoli che portano a sintomi fisiologici e comportamentali da risolvere con terapie farmacologiche o psicoterapia, dall’altro lato emozioni consapevoli da combattere con approcci psicoterapici. A seconda della situazione, la cura di una singola fobia (e non, dunque, dell’individuo in sé) consta di psicoterapia e/o farmaci: tra le quelle più efficienti ricordiamo la terapia cognitivo-comportamentale e la psicodinamica.
«Sono interventi brevi dai sei ai dodici mesi, massimo due anni; in alcuni casi però è necessario un “richiamo” perché il disturbo ritorna, anche a distanza di lungo tempo. Non sappiamo perché accada o quali siano i fattori di rischio, ma è un’eventualità reale pure quando si ricorre a terapie con i farmaci» spiega Bernardo Carpiniello, docente di psichiatria all’Università di Cagliari. «Guai, però, a ricorrere al fai da te: il rischio è un uso incongruo e nel caso delle benzodiazepine c’è un’elevata probabilità di sviluppo di tolleranza e di dipendenza», avverte Mencacci. I principi attivi utilizzati sono le benzodiazepine e alcuni antidepressivi, per tale ragione i farmaci vanno gestiti dal medico e con una ragionevolezza che non deve mancare né ai farmacofobici né ai più impavidi.
Inoltre, va sottolineato che la paura si apprende per condizionamento e che a volte è possibile giungere a ciò che ha scatenato la fobia, spesso un’esperienza traumatica capace di imprimere nella memoria un’associazione negativ, la quale si ripresenta ogniqualvolta vi siano delle situazioni simili (per esempio, l’essersi trovato in un nubifragio può far sorgere la fobia dei temporali). La guarigione passa in tali circostanze dal tentativo di sradicare la memoria negativa, esponendosi gradualmente e creando così delle memorie sicure: l’attività di un’area specifica del cervello, l’amigdala, si riduce e con essa lo fa anche il vissuto negativo. Lo hanno dimostrato dei ricercatori svedesi su Current Biology, mettendo pian piano dei volontari aracnofobici di fronte ai loro poco simpatici amici ragni.
La suddetta tecnica, legata a una sorta di ricondizionamento del cervello, seppur efficace trova non di rado un limite nella propria precaria durata, riportando a galla i problemi che sembravano essere stati risolti dopo qualche tempo. Al fine di risolvere tale inconveniente, i ricercatori americani sono andati direttamente alla ricerca dei meccanismi cerebrali che entrano in gioco quando si ha paura. Hanno condotto, perciò, un’osservazione sui ratti e utilizzato le tecniche dell’optogenetica, visualizzando e intervenendo in tempo reale sui circuiti dei neuroni, per poi procedere alla loro attivazione tramite piccoli impulsi di luce. In questo modo, è proprio nella struttura del cervello chiamata amigdala che è stato individuato l’interruttore che attiva le paure e il quale, dunque, sarebbe il bersaglio ottimale per rendere più duraturi gli effetti delle terapie.
Lo studio, guidato da Ki Goosens dell’Istituto di Tecnologia del Massachusetts e pubblicato sulla rivista eLife, non rende meno lontana l’applicazione delle tecniche dell’optogenetica sull’uomo, ma da questo potrebbero svilupparsi nuovi farmaci capaci di selezionare in modo preciso il circuito neurale legato al timore. Nel frattempo, l’unica cosa da fare è prendere coscienza dei propri limiti e impegnarsi a superarli senza deridere chi ha una fobia. «La paura è l’istinto più vitale, quello più da rispettare. La codardia è una scelta, la paura uno stato», scrive Saviano in ZeroZeroZero. Ridiamo allora dei codardi, ma diamo coraggio a chi ha paura.
Concetta Interdonato
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