Il crimine si combatte con fascino e intelletto. Guy Ritchie, noto ai più per i film Snatch – Lo strappo (2000) e Sherlock Holmes (2009), racconta con il suo stile impeccabile una spy story ispirata alla serie TV cult degli anni ’60. Negli anni in cui la Guerra Fredda raggiunge il suo apice, l’agente della CIA Napoleon Solo (interpretato da Henry Cavill) e quello del KGB Illya Kuryakin (Armie Hammer) sono costretti a mettere da parte le ostilità di vecchia data e allearsi per eliminare una misteriosa organizzazione criminale internazionale. Il loro unico aggancio è la figlia di uno scienziato tedesco scomparso, Gabrielle ‘Gaby’ Teller (Alicia Vikander), la sola chiave per infiltrarsi nell’organizzazione e prevenire una catastrofe mondiale. Oggi al posto di Robert Vaughn (Solo) e David McCallun (Kuryakin) ci sono ‘L’uomo d’acciaio’ Henry Cavill e ‘The Lone Ranger’ Armie Hammer, degne di nota le loro rese performative.
A parte nomi e riferimenti di plot non c’è nulla in questo nuovo, esaltante, film di Ritchie che possa far ricordare l’originale degli anni ’60 o che da esso sia mutuato ma al tempo stesso non c’è pigrizia intellettuale. L’obiettivo del film sembra essere quello di dare vita ad un processo che lavori sull’appeal dell’ambientazione anni ’60 sfruttandola il più possibile. A tratti il film sembra avere una caratterizzazione fumettistica e questa è operazione ben nota al regista che l’ha già sperimentata nei due film su Sherlock Holmes. Ritchie non rinuncia alla recitabilità del testo (sceneggiatura), ad una composizione filmica e scenica, la sua è una narrazione classica (e quasi epica). Gli attori scelgono di divenire «mediatori individuali della realtà», della realtà in cui essi vivono e operano. L’adozione e il riferimento all’ambientazione anni ’60 non appare strumentale al racconto, mantiene una precisa autonomia di genere ed espressività.
Un racconto che sembra essere asciugato al massimo senza diventare una parodia ma essere conscio della propria dimensione dolcemente fuori dal tempo, assumendo un’atmosfera vintage. Il nostro esercita la sua libertà rifiutando gli stereotipi per concentrarsi su un immaginario a tratti straniante e su un linguaggio fortemente connotato sul piano figurale. L’apparente semplicità del quadro rivela la cura minuziosa di ogni elemento (dall’eleganza degli abiti alle luci naturali e artificiali fino ad arrivare alla qualità dei dialoghi), fondamentale per comprendere il grado di elaborazione formale della vicenda.
Tutto è da ridere nel film, nulla è serio nella misura in cui l’antitesi tra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica viene guardata retrospettivamente con il senso del ridicolo post-moderno, facendo ridere lo spettatore di quelle lotte tra agenzie governative segrete che nel cinema tipico degli anni ’60 erano invece trattate in modo serio. Il piacere del cinema d’intrattenimento di massa, tuttavia, è capace di raffinare il proprio aspetto formale. La convincente espressività degli interpreti si esplica dentro uno spazio simbolico, una sorta di Wunderkammer sublimata da un sapiente gioco di luci. In tal senso è assai sorprendente l’apparizione in scena di un corpo come quello di Elizabeth Debicki nel ruolo del villain Victoria Vinciguerra riuscendo a comportare una cesura con l’omologazione che sembra invece caratterizzare molte altre attrici, reinventare ogni cosa che fa da capo dandogli di nuovo un senso.
Enrico Riccardo Montone
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