Il termine hashtag, indicato col simbolo #, è passato dall’essere sconosciuto ad essere di uso universale nelle conversazioni sui social media. Lanciato nel web dagli utenti di Twitter, la prima piattaforma a farne uso, come aggregatore e indicizzatore dei contenuti si è diffuso rapidamente su Instagram, Google+ e Facebook, lo si trova abbinato ad una parola chiave (#parola). Il meccanismo nasce con l’intento di usarlo per far sì che il tweet in 140 caratteri o il post divenisse di tendenza innalzando, di conseguenza, anche la visibilità del singolo utente o della pagina che si intendeva pubblicizzare. La parola è entrata, poi, in uso dai millennials che hanno cominciato a mettere hashtag ovunque nelle loro conversazioni, introducendo dei veri e propri trend come #BadDay #Maiunagioia etc. Di fronte a questo fenomeno gli stessi brand si sono dovuti mettere al passo con i tempi seguendo proprio la tendenza dettato dai nuovi artefici.
I brand consumer più importanti allineati con i primi utilizzatori li considerano quasi un vero e proprio marchio identificativo, è emersa la necessità di proteggere il proprio marchio nel mondo dei social media registrandone così la proprietà intellettuale per tutelarlo online ed evitare contraffazioni. L’ufficio Marchi e Brevetti Americano (USPTO) ne permette la registrazione sia alle aziende che ai singoli, la sola restrizione è che «l’hashtag deve fungere da indentificatore della fonte dei prodotti o dei servizi del titolare» come è scritto nel regolamento. Secondo una ricerca di Thomson CompuMark sono aumentate in maniera esponenziale le richieste delle aziende in merito, poiché di questi tempi la proprietà online è indice di supremazia. Vediamo, infatti, che nel 2010, quattro anni dopo l’avvento di Twitter, sono solo sette le aziende ad aver richiesto la registrazione del proprio hashtag come marchio. Già qualche anno più tardi la pratica di registrazione è aumentata, nel 2015 il numero delle richieste è salito a 1.398, di conseguenza in 5 anni il numero di quelle depositate equivale a 2.898 a livello globale.
Più precisamente, dal 2015 gli Stati Uniti sono al primo posto con il maggior numero di hashtag richiesti (1042) , seguiti poi dal Brasile con 321, Francia con 159, Gran Bretagna e Italia con 115. La percentuale dei richiedenti americani è di uno su tre; contrariamente a quanto si pensi, nella classifica Cina e Giappone hanno fatto complessivamente meno richieste rispetto al Guatemala. Registrare un hashtag equivale ad affermare un marchio, esso deve identificare l’origine del prodotto o del servizio, per questo ottenere l’approvazione della richiesta non è semplice, succede molto spesso che alcune possano venir abbandonate in corso d’opera, poiché magari sono state avanzate nel 2010. Dal 2013 l’USPTO ha aggiornato e introdotto nuovi criteri di registrazione, per cui il tasso di successo sembra destinato a crescere. Nell’epoca dei social media ogni azienda è soggetta a gran visibilità, ma potrebbe anche incorrere in spiacevoli episodi di contraffazione derivanti proprio da questo mondo così aperto e accessibile a tutti, perciò per tutelarsi è opportuno seguire la tendenza del #ProtectYourBrand.
Elisa Mercanti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Articoli di proprietà di Voci di Città, rilasciati sotto licenza Creative Commons.
Sei libero di ridistribuirli e riprodurli, citando la fonte.
Ti piacerebbe entrare nella redazione di Voci di Città? Hai sempre coltivato il desiderio di scrivere articoli e cimentarti nel mondo dell’informazione? Allora stai leggendo il giornale giusto. Invia un articolo di prova, a tema libero, all’indirizzo e-mail entrainvdc@vocidicitta.it. L’elaborato verrà letto, corretto ed eventualmente pubblicato. In seguito, ti spiegheremo come iscriverti alla nostra associazione culturale per diventare un membro della redazione.