Ogni giorno – sui giornali, in radio, in TV, sui social – si parla di emergenza migranti. Certi politici ci costruiscono intere campagne elettorali, valanghe di sedicenti opinionisti si sgolano nei salotti televisivi alla ricerca delle più disparate soluzioni e migliaia di attivisti e collaboratori dei vari CARA, CDA, CPSA, CIE si arrangiano – in mancanza di aiuti dalle Istituzioni – per far fronte a quella che sembra essere avvertita come una delle maggiori minacce per l’Italia.
Era il 3 Ottobre del 2013 quando, a largo di Lampedusa, si consumava una delle più terribili tragedie avvenute nel Mediterraneo: un’imbarcazione battente bandiera libica, con a bordo più di cinquecento migranti di origine africana – provenienti in maggior parte dall’Eritrea – arenata ad un quarto di miglio dalle coste dell’isola, prendeva fuoco e colava a picco, provocando più di 360 morti e 20 dispersi. In memoria del naufragio, l’allora Presidente del Consiglio Enrico Letta, dichiarò una giornata di lutto nazionale e, nel 2016, il 3 Ottobre veniva dedicato alle vittime dell’immigrazione.
Da questa tragedia riuscì a salvarsi lo scafista, Khaled Ben-Salem che, come riportato in un’inchiesta dell’Espresso, è stato arrestato con l’accusa di omicidio colposo plurimo e associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione illegale; questi, tuttavia, si è sempre dichiarato come un «semplice passeggero» e non un membro dell’equipaggio né, tantomeno, come trafficante di migranti. Nel 2015, su disposizione della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, prese avvio l’Operazione Glauco che portò allo smembramento di una vasta rete criminale e alla cattura di sei contrabbandieri responsabili del traffico di migranti tra Eritrea, Etiopia, Libia e Italia.
Tali arresti, come dimostrato dall’estensiva rilevanza che i media nazionali ed internazionali attribuirono all’evento, lodati come uno dei più importanti risultati alla lotta contro l’immigrazione clandestina e al traffico di esseri umani, sembravano aver messo fine alla vicenda di Lampedusa. Così non è stato.
Tra i sei contrabbandieri catturati a margine dell’Operazione Glauco figurerebbe Medhanie Tesfariam Berhe (29), cittadino eritreo arrestato in Sudan ed estradato in Italia con l’aiuto delle autorità inglesi, accusato di essere uno dei maggiori trafficanti operanti sulla tratta Libia-Lampedusa e principale responsabile del disastro del 3 Ottobre del 2013. Secondo quanto riportato dal The Guardian, tuttavia, le autorità italiane avrebbero scambiato il Berhe con Medhanie Yehdego Mered (35), vero re dei trafficanti umani del Mediterraneo e figura chiave del racket milionario che gira attorno alla tratta di migranti nordafricani. «Non è il mio nome, non è la mia identità. […] State accusando la persona sbagliata» Berhe dice durante la prima udienza «È tutto assurdo».
Dopo più di diciotto mesi e due processi, durante i quali le autorità non hanno ancora presentato alcun testimone, sembra sempre più plausibile l’ipotesi che si tratti di un clamoroso scambio di identità, tanto da aver addirittura spinto l’On. Erasmo Palazzotto (SI), vice presidente della Commissione affari esteri, a presentare un’interrogazione parlamentare riguardo alla vera identità del Berhe. Lo stesso Dipartimento di Immigrazione eritreo sarebbe dell’opinione che le autorità italiane avrebbero in custodia l’uomo sbagliato, dopo averne inviato agli inquirenti il suo passaporto eritreo e aver fatto il nome della madre, Meaza Zerai. Quest’ultima si è addirittura recata a Palermo per sottoporsi ad un test del DNA e provare lo scambio d’identità ma fino a questo momento non ha avuto successo: «Ho affrontato un lungo viaggio per salvare mio figlio […] Non è un contrabbandiere e loro (i magistrati) lo sanno» ha dichiarato a margine dell’udienza. Ad alimentare i già consistenti dubbi sull’identità dell’uomo in custodia alle autorità italiane, si è aggiunta anche la stessa moglie di Medhanie Mered, Lidya Tesfu la quale ha dichiarato di aver conosciuto Berhe tramite Facebook ma che questi condividesse con il marito solo il nome: «conosco una dozzina di persone chiamate Medhanie, è un nome molto popolare in Eritrea».
È inutile dire che se la vicenda di Medhanie Berhe rappresenta la risposta italiana alla crisi migratoria, questa ha suscitato più che qualche dubbio agli occhi della stampa internazionale. Il The New Yorker ha draconianamente descritto l’intera situazione in un articolo intitolato How not to solve the refuee crisis, il che ci sembra non abbia bisogno di alcuna traduzione.
La critica d’oltreoceano si focalizza soprattutto sul modo in cui i magistrati della Procura distrettuale di Palermo conducano le proprie indagini: l’adozione dei metodi tipici dei processi per mafia sembra poco adattarsi alla realtà altrettanto complicata della rete criminale del traffico internazionale di migranti e si teme che il contraccolpo mediatico che, inevitabilmente, colpirà la magistratura italiana dopo tale vicenda possa avere conseguenze disastrose per l’unico organo che è ritenuto uno dei pochi argini contro lo strapotere mafioso in Sicilia.
Insomma, ci sono enormi possibilità che un innocente sia detenuto ingiustamente da più di diciotto mesi, che sia stato coinvolto indebitamente in un’operazione di polizia internazionale (dalla quale anche la National Crime Agency inglese ha recentemente preso le distanze) e che, nonostante i dubbi che circondassero la vicenda, il suo (presunto) arresto sia stato presentato come uno dei più grandi successi nella lotta contro l’immigrazione clandestina.
My latest from Palermo, ft. an antimafia prosecutor, a Sicilian journalist, a smuggler, and a milkman. https://t.co/0tanaoAZxo
— Ben Taub (@bentaub91) 24 luglio 2017
Nel silenzio dei maggiori media italiani si sta consumando una vicenda che ha del paradossale, una storia che sembra avere le chiare coloriture di una strumentalizzazione politica e che vede protagonista un perfetto estraneo, vittima di un sistema interessato ad esibirne il cadavere come trofeo della moderna caccia alle streghe, piuttosto che accertarne le eventuali responsabilità. Certo, prima di parlare di responsabilità per Medhanie Tesfamariam Berhe bisognerebbe accertarne la corretta identità ma questa, per il sistema italiano, sembra solo una formalità.
Francesco Maccarrone
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Articoli di proprietà di Voci di Città, rilasciati sotto licenza Creative Commons.
Sei libero di ridistribuirli e riprodurli, citando la fonte.
Ti piacerebbe entrare nella redazione di Voci di Città? Hai sempre coltivato il desiderio di scrivere articoli e cimentarti nel mondo dell’informazione? Allora stai leggendo il giornale giusto. Invia un articolo di prova, a tema libero, all’indirizzo e-mail entrainvdc@vocidicitta.it. L’elaborato verrà letto, corretto ed eventualmente pubblicato. In seguito, ti spiegheremo come iscriverti alla nostra associazione culturale per diventare un membro della redazione.